C’era lui in persona alla presentazione stampa nella grande sala cinema del Palaexpo di Roma, Georg Baselitz, il pittore tedesco ora settantanovenne, circondato dalle curatrici e dai vertici dell’Azienda: guance carnose, cranio a specchio, e un disagio palpabile a parlare del proprio lavoro, come capita sovente agli artisti chiamati a giustificare e illustrare le opere in cui si sono espressi e che dovrebbero bastare, da sole, alla curiosità del pubblico. Tornarci sopra diventa per l’autore un esercizio impacciato, indiscreto; il rimestare senza voglia in un deposito geloso, malagevole del proprio essere; tra concetti che sfuggono alle parole correnti, e suonano fatalmente addomesticati, approssimativi nel momento stesso in cui vengono pronunciati. Ma l’impresa, si sa, non può essere evitata, se si accetta la celebrazione da parte di una città come Roma: una personale inedita e prestigiosa al piano nobile del Palazzo delle Esposizioni, dove le opere, per la maggior parte di rilevanti proporzioni, sono ben collocate, in ambienti idonei, in spazi appropriati, e nella luce giusta. Un appuntamento di rilevanza internazionale, circonfuso dall’eccitante atmosfera degli eventi imperdibili.
L’avvento sulla scena di Baselitz, la sua esplosione artistica, avviene nel biennio 1965-66, quando il giovane ventisettenne ritorna in Germania dopo un soggiorno a Firenze propiziato da una borsa di studio a Villa Romana. Un rientro segnato da una travolgente vampata di furore creativo, che lo induce a dipingere senza posa il ciclo degli Eroi. “Figure possenti – scrive Max Hollein nel Catalogo Hirmer di agguerrita suggestione grafica – ma allo stesso tempo mutilate e private della propria autorità, in uniformi rudimentali che li rivestono a malapena. Si tratta di uomini robusti, ma al contempo letargici, malinconici superstiti di un mondo distrutto e caotico…”
Chi sono questi personaggi ritratti a pennellate energiche, rabbiose, rigonfie di colore, eppure così incerte nella forma, che ci riconducono più a inquietanti revenant che a uomini in carne e ossa? Chi sono questi Eroi così poco eroi, che avanzano verso di noi irriconoscibili, esibendo mostruose intimità, vittime di un morbo invisibile che ne stravolge la persona?
“Sono stato messo al mondo – scrive Baselitz, e lo ribadisce in conferenza stampa – in un ordine distrutto, in un paesaggio distrutto, in un popolo distrutto, in una società distrutta. E non volevo introdurre un nuovo ordine. Avevo visto fin troppi cosiddetti ordini”.
L’arte non può essere ideologica, il suo compito non consiste nel cambiare il mondo, ma nel rappresentarlo, nel testimoniarne l’aspetto segreto che spesso sfugge allo sguardo comune. Queste sono le convinzioni che l’artista enuncia al pubblico, senza nessuna enfasi, cercando semplicemente di farsi capire e insieme di chiarire a se stesso il senso meno immediato dei suoi dipinti. Arriva anche a dire: “Noi in Germania non abbiamo avuto come voi Mussolini, che amava e proteggeva le arti, abbiamo avuto Hitler che le distruggeva, pur dichiarandosi pittore!”
Le tragiche macerie, di ogni genere, in cui l’artista ha imbevuto la sua immaginazione, gli impongono di rifiutare qualsiasi appartenenza: “A me interessa la mia autobiografia” Dichiara. E in risposta alle garbate sollecitazioni di Daniela Lancioni, argomenta:
“Avevamo bisogno di trovare una via d’uscita. Io non appartengo a nessun partito; forse, semmai, al partito degli artisti. Ma senza riconoscermi in alcun movimento. Anzi avevo bisogno di tenermi lontano dalle scuole, dagli indirizzi dell’epoca. Quando ho iniziato, molto presto, non ho incontrato un gran successo, a dire la verità proprio nessun successo. Zero! Quasi tutti erano contrari alla mia opera, e così doveva essere, se l’artista vuole sopravvivere soltanto con l’arte. «Lotta continua», diceva il mio amico Kounellis che è appena scomparso; sosteneva che fosse l’unico atteggiamento valido per salvarsi. La mia è una pittura diretta, molto soggettiva, personale, priva di adiacenze e affinità, di condivisioni di gusto e di tendenze. Ho avuto cinquanta anni per riflettere sui miei quadri; e proprio ieri, qui a Roma, mi sono accorto che tutti i tedeschi – a partire dal 1933 – hanno avuto bisogno di un passaporto, un permesso di espatrio dal demoniaco che li accompagnava, da quel terrificante lato oscuro del mondo che hanno tragicamente incarnato. Ecco da dove provengono questi sembianti di eroi, di superuomini, massicci ectoplasmi che emergono da una dimensione tenebrosa; ecco cosa mi ha condotto alla realizzazione di questi eroi vacillanti come macigni sul baratro. Lo penso oggi, non lo pensavo quando li ho dipinti”.
Settantuno sono le opere in mostra – Gli Eroi, i Nuovi Tipi, e i Remix – per questo progetto espositivo che, avviato dallo Städel Museum di Francoforte, sta facendo il giro d’ numerose a autorevoli gallerie: dopo Roma, il Moderna Museet di Stoccolma e il Museo Guggenheim di Bilbao. Sono figure minacciose, possenti e inconsistenti, simili a miserabili replicanti o zombi straccioni, con addosso brandelli di divise e alle spalle paesaggi corrosi dal veleno dell’odio e della distruzione, alberi spogli e sanguinanti, cieli senza luce. Baselitz dichiara di non aver voluto intenzionalmente confluire nell’espressionismo astratto francese o americano degli anni Cinquanta, eppure ne ha assimilato in parte la disgregazione della figura, il contagio insidioso. In un dipinto appare, quale evidente citazione dell’informale, un accenno alla tecnica del dripping, la sgocciolatura delle tele di Pollock.
Il suo stile non ha riscontri: “Create vent’anni dopo la fine della guerra, – scrive ancora Hollein – queste immagini devono aver dato allo spettatore di allora l’impressione di emergere da un tempo solo apparentemente trascorso (…), figure rimosse di un passato latente che reclamano una riflessione nel presente (…); profughi di paesi ormai morti, putrefatti, abbrutiti”.
Il giovane Georg, alto, magro, elegante, il volto scavato e gli occhialetti da intellettuale, così come appare nelle fotografie del catalogo, lascia la Germania dell’Est, per trasferirsi nella zona occidentale, prima che nel 1961 venga innalzato il muro di Berlino; volta le spalle alla Sassonia dell’infanzia, distrutta dalla guerra, alla terra d’origine e alle radici; cerca la propria identità nell’isolamento e nella lacerazione, contrapponendosi alle correnti artistiche del tempo e “utilizzando consapevolmente i propri lavori per non omologarsi a nulla e a nessuno, per mantenere una posizione anticonformistica e profondamente individuale”.
Oggi queste opere “monumentali e impressionanti”, Eroi, e Nuovi tipi, denominati all’occorrenza “eroi, ribelli, partigiani, pastori, insorti”, rappresentano una provocazione, una posizione ‘anacronistica’ contro l’ordine predominante dell’arte e della società. Scariche ormai delle tensioni emotive che le hanno originate, esse raccontano una “riflessione senza tempo sull’esistenza artistica”; con una forza espressiva – e stilistica – che non trova riscontro nella storia della pittura del XX Secolo. E lo sguardo attuale dell’artista ne ripropone in “Remix” i modelli aggiornati tramite una rivisitazione iniziata nel 2005. L’originaria drammaticità si è alleggerita non soltanto nello specifico ‘narrativo’, ma proprio nella minore densità della ‘materia pittorica’, come se l’autore sottraendo la componente corporea si stia sforzando di rilanciare la pura essenza delle sue composizioni. Il suo pensiero è assai chiaro in proposito: “Il dipinto è un’immagine ideale, un dono di Dio, è indispensabile – una rivelazione”. L’opera d’arte, quando è tale, è sempre una rivelazione, e il visitatore ne rimarrà turbato, arricchito, sorpreso, disorientato. La mostra rimarrà aperta al Palaexpo di Via Nazionale fino al 18 giugno: curatore Max Hollein (ora direttore del San Francisco Museum of Fine Art), co-curatrice Eva Mongi-Vollmer insieme a Daniela Lancioni curatore senior del Palaexpo.