I dati dell’Ismu in occasione del 19 aprile: sono gli egiziani ad avere più figli. Tra i papà migranti la disoccupazione è la metà rispetto a chi è senza prole. E anche il reddito è maggiore
MILANO – Gli immigrati uomini in Lombardia sono 417mila, il 60% è anche papà. Secondo i dati diffusi dall’Ismu, spesso sono padri di due figli. E un quarto di questi bambini, però, vive nel Paese d’origine. Alla vigilia della festa del papà, la Fondazione Ismu (Iniziatie e studi sulla multietnicità) ha voluto tracciare un quadro dei papà migranti. Tra le nazionalità più numerose nel panorama dell’immigrazione in Lombardia, sono gli egiziani ad avere il maggior numero medio di figli, 2 a testa; seguono i senegalesi (1,8) e gli indiani (1,6). Contrariamente a uno stereotipo corrente, i marocchini hanno invece soltanto 1,3 figli mediamente, meno dei cinesi (1,4). Il dato cresce evidentemente se si escludono coloro che non hanno nessun figlio: i padri marocchini raggiungono in media 2,4 figli, e ancor più “prolifici” sono i padri egiziani (2,5) e quelli senegalesi (2,9).
“Parliamo però di uomini che in molti casi non hanno ancora concluso la loro “carriera riproduttiva”, considerata l’età media (41 anni per gli egiziani, 39 per gli egiziani, 37 per i senegalesi e i marocchini, 36 per i cinesi) -sottolinea Ismu-. Questi dati, tuttavia, suffragano quanto emerso dal report dell’Istat apparso proprio in questi giorni, ovvero il progressivo allineamento dei comportamenti procreativi degli stranieri ai modesti standard italiani. Come noto, mentre per le donne le responsabilità familiari spesso rappresentano un “disincentivo” alla partecipazione attiva al mercato del lavoro, per gli uomini avviene esattamente il contrario, a conferma della tenuta del loro ruolo di principale breadwinner”.
Se fra gli immigrati senza figli i disoccupati il 15,6%, tra i papà si scende al 7,7%. Non solo. Secondo l’Ismu, il reddito da lavoro cresce parallelamente al crescere del numero dei figli, e in particolare del numero di figli in Italia: si passa da 762 euro se senza figli, a 1.058 se con un figlio, e poi a 1.276 se con due figli e, con un aumento più ridotto, a 1.294 se con tre figli. E si conferma, in questo contesto, un più che probabile progressivo disimpegno dall’attività lavorativa in favore delle cure domestiche e dei figli per le partner femminili delle coppie straniere, soprattutto con la nascita del secondo figlio, con redditi medi mensili che per le donne scendono da una media di 647 euro se senza figli, a 640 se con uno, addirittura a 540 euro se con due figli, fino a crollare a 264 euro se con tre o più figli, dove la condizione di casalinga è davvero predominante. “Va da sé che parliamo comunque di redditi molto modesti, che collocano tanti nuclei immigrati in una condizione di particolare vulnerabilità“.
“Resta da aggiungere che i figli degli immigrati hanno, in grande maggioranza, padri impegnati nei classici ‘lavori da immigrati’. Profili per lo più manuali, con una forte concentrazione nelle mansioni di addetto alla ristorazione (camerieri, pizzaioli, lavapiatti, addetti alle mense) e di operai nelle fabbriche e soprattutto in edilizia. I più numerosi (pari al 16% del totale) sono proprio gli operai edili, seguiti dagli operai nell’industria (12%), ma è anche significativa l’incidenza dei titolari ed esercenti di attività commerciali (in oltre un caso su dieci), a segnalare la persistenza di un sentiero di mobilità sociale percorso nel passato da migliaia di migranti italiani, spesso sorretto dal desiderio di riuscire, un domani, a trasmettere l’attività ai propri figli. In quest’analisi si può giungere a considerare anche il caso particolare degli imprenditori, che incidono solo per l’1,4% tra gli uomini stranieri senza figli, ma salgono addirittura al 13,1% tra quelli con quattro o più figli. Parliamo certamente di numeri modesti, ma che confermano una relazione tradizionalmente ben presente anche nell’imprenditorialità indigena, ovvero quella fra il creare una propria impresa e il ‘mettere su famiglia'”.