di Ettore Scola e Ruggero Maccari, adattamento di Gigliola Fantoni, regia di Nora Venturini scene di Luigi Ferrigno costumi di Marianna Carbone, luci di Raffaele Perin video e suoni di Marco Schiavoni
Con Valeria Solarino, Giulio Scarpati, Giulio F. Janni, Anna Ferraioli, Matteo Cirillo, Paolo Minnielli, Federica Zacchia
Compagnia Gli Ipocriti -Teatro della Pergola – Firenze
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Empiono la scena, all’inizio, i filmati d’epoca in cui il Buce callipigio, con nappina nera virilmente oscillante, accoglie nell’urbe in festa l’Imbianchino austriaco dai baffetti verticali estroflettendo i labbroni negroidi in una smorfia da mascherone viareggino, compiaciuto della postura studiata e dell’effetto belligerante. Si bilancia scalpitante sui tacchi, insofferente d’ogni indugio borghese, tenendo le manine sul fianco bombato alla Ava Gardner.
Punto apicale della Mussolineide, la visita di Hitler in Italia porta il deliquio collettivo, in specie quello femminile, a sgretolare l’ultimo argine della ragione, o della semplice ragionevolezza. Assistiamo, un po’ sgomenti, allo slittamento, o frana rovinosa, della sfera del Logos verso quella dell’Eros. Il culto maniacale del Capo Supremo prende definitivamente la forma dell’invidia, intesa come ammirazione non tanto segreta, negli uomini, e di vaneggianti astrazioni erotiche nelle donne.
Erompe il narcisismo infantile di soggetti itifallici, bisognosi di affermare la propria esistenza attraverso azioni sconsiderate, o addirittura violente e aberranti, e parossismi prossimi alla satiriasi. Nello stesso tempo, gli amplessi immaginari di signore d’ogni età e censo col Buce dalle froge frementi quanto quelle dei suoi numerosi cavalli, appagano il desiderio costantemente umiliato, nonché sottoposto allo stretto controllo maschile, procurando financo gravidanze isteriche.
Il culto mussoliniano è, nella Storia contemporanea, uno dei più macabri esempi di uso del Corpo, più o meno sacro, finalizzato a una mitopoiesi degradata, in grado di compiacere e asservire le masse di memoria manzoniana.
Quando lo schermo si alza ci ritroviamo in un interno asfittico piccolo (molto piccolo) borghese, stanzucce prive di spazi di riservatezza e soffitti bassi. Il pater familias e tre dei suoi discendenti diretti si preparano a transumare chiassosamente in piazza per assistere di persona allo “storico evento”: avvitati, con sfumature diverse, alla medesima psicosi, consumano la colazione con l’ansia di arrivar tardi, indifferenti o derisori nei confronti della madre e moglie, che si aggira frettolosa in cucina, mentre il coniuge adiposo dall’ego littorio ne mortifica la femminilità utilizzando un lembo della sua vestaglia negletta e un po’ strappata per asciugarsi le mani.
Rimasta sola, Antonietta prende a parlare con se stessa. Si vanta come una bambina dell’album di ritagli e articoli riguardanti il Buce collezionati negli anni. Le parole d’ordine del regime, e il desiderio (comune a molti) di non sentirsi esclusa l’hanno murata nell’ignoranza, nell’accettazione succube del pensiero dominante. Eppure, dentro l’immaturità emotiva qualcosa di inquieto si aggira, qualcosa di ancora indefinito, che insinua ombre, larvali insoddisfazioni, subito rimosse, nella vita domestica, troppo spesso turbata da ferite dolorose.
Valeria Solarino traccia un ritratto memorabile di Antonietta, attraverso una ragnatela di gesti ed invenzioni espressive. Ne porta alla luce l’entusiasmo frustrato, innocente, in cerca di una meta, l’adattamento a volte insofferente dell’animale in cattività, la diffidenza indotta. Difficile non cercare di assorbirne ogni movimento o sguardo, mentre rassetta con una certa goffaggine, o mangia con voracità i resti della colazione altrui, o si muove per casa un po’ curva, rigida, rattrappita da un giogo pesante, o si difende dalla sorveglianza tetra della portinaia, o con gioia trova e tenta di decifrare un albo a fumetti, godendo soprattutto delle illustrazion
La sua vita cambia, solo per lo spazio breve di una giornata, nel momento in cui il pappagallo decide di volarsene via, nell’appartamento di Gabriele, appena licenziato dalla virilissima EIAR come omosessuale e in attesa di venire prelevato e portato al confino. Quando Antonietta bussa alla porta sta preparando la valigia e accomiatandosi dai libri. Sono due individui tenuti ai margini, rimossi, spinti nell’invisibilità, calpestati e derisi dalla tracotanza imperante, sgualciti dalla vita, costretti alla dissimulazione. Divergenti per formazione e consapevolezza, riescono tuttavia a riconoscersi, superando sospetti, luoghi comuni, scontri anche caratterizzati dall’asprezza, come quello, scenograficamente abbacinante, che si apre sulla terrazza, fra lenzuola bianche stese ad asciugare nel blu assoluto, e si conclude su un pianerottolo con l’invettiva esasperata di Gabriele.
Finiranno, come si sa, per comprendersi ed amarsi, e nell’atto d’amore intravedere il riflesso illusorio di una nuova vita, di una speranza possibile. Anelito prezioso che si infrange all’apparir del vero. I funzionari di polizia arrivano a casa di Gabriele, e Antonietta, intenta a sillabare l’incipit dei “Tre moschettieri”, regalatole dall’uomo, osserva la scena dalla finestra. Tutto si fa cenere, la luce piano piano si spegne e Antonietta si alza per rispondere al richiamo bestiale del marito.