BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Don Vittorio e il crocifisso di Regina Coeli

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Pregando in quattro mura
L’ingresso per i visitatori è da via della Lungara. Un portone qualsiasi di una delle strade più trafficate di Trastevere. «Abbiamo appuntamento con il cappellano». Dall’altra parte del vetro ci squadrano tre vigilanti annoiati. «Avete il tesserino da giornalisti? Senza non si può entrare».

«Ma come? Abbiamo parlato con la direttrice. Ci siamo scritti più volte. Sa già tutto». Inizia la catena di telefonate. Aspettiamo venti, forse trenta minuti nella sala spoglia giallo canarino, seduti su una fila di sedie in plastica, accanto a una ragazza che si torce le mani. Non c’è né una macchinetta del caffè, né un distributore d’acqua. Ci fanno un cenno dal gabbiotto di vetro. «E’ tutto a posto. Il cappellano vi aspetta. Entrate».

Spegniamo i telefoni e li infiliamo negli zaini, stipiamo tutto negli armadietti e chiudiamo a chiave, passiamo sotto al metal detector, attraversiamo una porta a vetri doppia e saliamo cinque scalini. «Non sono i famosi tre scalini di Regina Coeli, ma quasi». Padre Vittorio Trani sorride. «Se sei di Roma, da oggi, varcata questa soglia, hai un marchio in più che attesta la tua vera romanità!». Ha un volto disteso, cammina tra i corridoi con un pacco di taralli nella mano che non manca di offrire a chi incontra. Saluta e chiama per nome le persone che ci sfilano accanto. Dopo trentotto anni e mezzo di cappellania nella casa circondariale romana non ha esaurito la curiosità e la voglia di fare conoscere il suo carcere. Valichiamo enormi portoni di ferro, camminiamo lungo androni dai soffitti altissimi bianco azzurri e attraversiamo enormi patii a volta dove si affacciano i cancelli di ingresso alle sezioni. La struttura al suo interno è affascinante e colorata, ma i passi di chi la attraversa sono strascicati e pesanti. Vedo gente in tuta e scarpe sfondate, volti stanchi e sguardi annoiati. Il cappellano ci parla di Gramsci, De Gasperi e degli altri politici detenuti tra queste mura. Ci indica la sezione dove erano rinchiusi. Poi alza lo sguardo verso un dipinto colorato.

«Questo Cristo lo ha restaurato un regista, detenuto per storie di droga». Padre Vittorio è orgoglioso di mostrarci un crocifisso posto d’avanti a un quadro a tinte accese, appeso nell’enorme disimpegno nel cuore della casa circondariale. «Diceva che il capo doveva avere il “perizoma” color terra… così chiamava Cristo, “il capo”. Diceva che non doveva essere bianco, perché il capo era povero. Ma poi un giorno si è svegliato dopo un’apparizione, una visita notturna del Signore. La mattina era elettrico e preoccupato: “Don Vitto’, lo dobbiamo fare bianco, il perizoma. Lui lo vuole bianco!”».

Nella casa circondariale di Regina Coeli oggi ci sono circa duecento detenuti, di sessantotto nazionalità diverse. Ma il numero cambia di giorno in giorno, sino ad arrivare a circa mille presenze. In fondo alla struttura c’è una piccola cappella illuminata dal sole, con un grosso crocifisso e qualche panca di legno scuro. Ci sediamo assieme a due detenuti selezionati per l’occasione dalla direzione. Sono entrambi italiani. Spieghiamo loro che siamo un gruppo di giornalisti radiofonici e scrittori, che siamo interessati a sapere come si vive la spiritualità in un carcere, se il loro bisogno di fede è sempre soddisfatto o se ci sono cose che potrebbero migliorare, se gli spazi di preghiera o meditazione sono sufficienti. Padre Vittorio si siede in mezzo a noi.

«Il problema di questo posto è che è una casa circondariale, con persone che in teoria dovrebbero essere solo di passaggio, perciò non vengono realizzati progetti a lunga scadenza, ma in pratica le cose sono diverse. Considerate che il 70% qui dentro è straniero, soprattutto di fede musulmana». Il nostro primo intervistato è gentile, pondera bene le parole, ha una buona dialettica, gli occhi carta da zucchero e un tao appeso al collo. Dopo un breve confronto si allontana. Lo vedremo prima di andare via, sul palco della sala chiamata “polifunzionale”, impegnato nelle prove del coro.

Mentre parliamo si aggiungono alla conversazione altri detenuti. Si siedono in silenzio attorno a noi. «Io vengo dal carcere di Viterbo. Ho trascorso lì più di un anno. Sono stato in isolamento per quindici giorni. In quel periodo mia sorella mi aveva inviato dei libri sul buddhismo, ma io non li avevo mai aperti». Chi parla viene dalla Campania. Giovane, poco più che ventenne, mani con piccoli tatuaggi sbiaditi, barba incolta e occhi tondi azzurro cielo. «Quando mi hanno trasferito qui stavo male, non mi ritrovavo con me stesso, reagivo a tutto, ero sempre impulsivo. Poi un compagno di cella mi ha parlato del buddhismo, così mi sono ricordato dei libri di mia sorella e da lì in poi è stata tutta una cosa improvvisa, inaspettata». Racconta di essere cattolico, di andare ancora a messa, ma di meditare tutti i giorni ormai da più di quattro mesi. «Anche tre, quattro, cinque ore al giorno, tra un momento e l’altro della giornata, trovo spazio per la mia meditazione».

La timidezza iniziale lascia il passo alla parola e al flusso di pensieri. Dalla porticina della cappella entrano le voci del coro. Si preparano per un concerto, sarà il giorno successivo. «Qui dentro hai tempo per pensare a tutto quello che fuori non hai mai costruito. Valori, principi… fuori ci sono solo le rate e i problemi». Sono le parole di un romano dalla pelle ruvida e le mani rosse. Occhi stanchi e un sorriso che pare rassegnato. «Qui ognuno di noi è una miniera di potenzialità. Questo posto potrebbe diventare una risorsa inesauribile. Invece siamo in una società che ancora considera il detenuto un uomo da punire per il suo reato».

Si sono aggiunti al gruppo un ragazzo musulmano convertito al cristianesimo e due ortodossi di origine rumena. Parliamo con loro di fragilità, di cura, di multi- religiosità. Ne esco piena di storie e di pensieri. Penso soprattutto alla necessità di cura e di ascolto profondo che chiede, senza parole, chi attraversa un periodo critico, chi non può tornare indietro, chi fatica ad andare avanti.

Mentre ci avviamo verso l’uscita chiediamo al cappellano perché non esiste uno spazio fisico per la preghiera dedicato a chi fa parte di altre confessioni. «C’era un progetto di costruzione di una moschea e di altri spazi, ma poi non ci sono stati più i finanziamenti». Così oggi a volte un Imam riesce a entrare e guidare le preghiere, ma il più delle volte i detenuti musulmani si organizzano da soli. Per le altre fedi, ancora molto poco, qualche visita di un centro buddhista e i testimoni di Geova, che cercano adepti anche qui.

Ripercorriamo a ritroso la strada dell’andata. Nella sala polifunzionale è in corso una lezione di filosofia, in biblioteca qualcuno sfoglia un libro e nei lunghi corridoi si passeggia in attesa della mensa. Ascolto il rimbombare dei passi, la voce alta di una guardia che chiama due persone per cognome, sento l’odore del pranzo in preparazione e ripenso alle ultime parole di uno degli uomini che ha parlato con noi. «La mattina, quando ci svegliamo, nella mia cella c’è da ridere!». E sorride, di una felicità autentica. «C’è chi srotola il tappetino e si mette giù in ginocchio, chi medita e recita parole in indiano, chi stringe il rosario. Così, mi lavo i denti e penso che in fondo questa convivenza, questo comunicare e stare insieme, è possibile. E se è possibile qui dentro, dovrà essere possibile pure lì fuori».

Da isiciliani


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