Deniz Yücel, il collega di Die Welt con doppia nazionalità, turca e tedesca, resta in carcere.
Il ricorso degli avvocati che avevano chiesto l’annullamento della misura cautelare è stato respinto dalla Corte di Appello di Istanbul.
Yücel è solo l’ultimo di una lunga serie di giornalisti, al momento 165, arrestati e rinchiusi nelle prigioni turche, di cui 130 operatori dell’informazione finiti nel mirino di Receip Tayyip Erdogan dopo il fallito golpe nel luglio del 2016.
Il presidente turco, che grazie all’esito scontato del referendum del prossimo 16 aprile vedrà confermata la riforma che gli assegna poteri assoluti, ha trasformato la Turchia in una prigione a cielo aperto.
E non solo per i giornalisti.
Sono decine di migliaia i presunti fiancheggiatori di Fethullah Gulen, considerato l’ideatore del tentativo di colpo di stato della scorsa estate, in attesa, dietro le sbarre, di processo e, in molto casi, della formulazione formale delle accuse.
Il governo finora ha ha licenziato oltre 100.000 funzionari pubblici, arrestato 30.000 tra insegnanti, personale di sicurezza, ufficiali dell’esercito, politici dell’opposizione e giornalisti, chiuso decine di emittenti televisive, radiofoniche e giornali e confiscato il patrimonio di centinaia di aziende.
Per la maggior parte di coloro per i quali un capo di imputazione è stato formulato il reato contestato è di quelli gravi, che prevedono pene fino all’ergastolo: terrorismo.
Si tratta di una vera e propria rappresaglia contro la stampa e la libertà di espressione per imporre il bavaglio turco.
Ma guai a parlare di autoritarismo o di prove tecniche di dittatura. Nonostante la repressione in atto nel Paese, le ‘purghe’ continue e l’arresto dei suoi oppositori, per impedirgli di esercitare in Parlamento il contrasto alla sua azione politica, definisce “deliranti” le critiche mosse alla riforma costituzionale con cui punta a rafforzare il suo dominio.
“Queste accuse sono falsità, sono deliri generati dal non aver nulla da dire in pubblico”, ha affermato il presidente in un discorso ad Ankara a meno di un mese dal referendum che determinerà l’introduzione del presidenzialismo.
Le parole di Erdogan sono rivolte soprattutto al principale partito di opposizione, il Chp, e al suo leader, Kemal Kilicdaroglu, il quale continua a mettere in guardia sul rischio che rappresenta per la democrazia ‘un uomo solo al comando’.
A queste osservazioni il presidente ha risposto sarcasticamente affermando di non sapere “chi sia quest’uomo di cui
parla” e che la Costituzione stabilisce che un presidente viene eletto per un mandato ben definito.
Ma i suoi alterchi non si limitano ai confini nazionali.
Il Sultano è in pieno delirio di onnipotenza e lo dimostrano anche le continue minacce all’Europa.
È di ieri l’ultimo attacco a noi ‘europei’: se l’Europa dovesse continuare “in questo modo”, ha intimato, “nessun europeo in qualsiasi parte del mondo potrà camminare tranquillamente in strada”.
Queste nuove dichiarazioni del leader turco seguono la crisi diplomatica scoppiata con Olanda e Germania, ‘colpevoli’ di aver impedito a ministri turchi di tenere comizi nei due Paesi in vista del referendum.
Erdogan si ostina ad affermare che la Turchia non avrebbe mai impedito a esponenti di governi stranieri di parlare in pubblico.
Nel suo Paese, ha farneticato ad Ankara in conferenza stampa giovedì scorso, i ministri non possono essere buttati fuori, né i cittadini di “essere presi a calci”.
Almeno fino a quando non si contrappongono alla sua visione di ‘democrazia’.
Per sostenere l’azione di chi, nonostante le epurazioni e le repressioni in atto in Turchia, continua a contrastare il tentativo di ‘bavaglio turco’ il 2 maggio noi di Articolo 21, con la Federazione nazionale della stampa, l’associazione NoBavaglio e tanti altri colleghi, saremo davanti all’ambasciata turca per celebrare, simbolicamente insieme a Deniz Yücel e a tutti i giornalisti in carcere, la giornata mondiale della libertà di informazione.