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Beniamino Andreatta e il sogno di un’altra Europa

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Beniamino Andreatta era un uomo complesso: un uomo particolare, difficile, dal carattere tutt’altro che accomodante, come del resto tutti coloro che hanno un carattere, una personalità e un livello di dignità che consente loro di mantenere sempre la schiena dritta e di camminare a testa alta. Tuttavia, aveva un’altra caratteristica oggi considerata una prerogativa degli ingenui: era un uomo profondamente buono e magnificamente idealista, innamorato di una certa idea della politica e della società, di una certa visione del mondo e dell’unicità dei giovani, cui prestava un ascolto ed un’attenzione davvero particolari.
Perché i giovani, diceva, quando cominci a frequentarli ti cambiano, ti cambiano sempre, costituiscono uno sguardo sul futuro più aperto ed innovativo, possiedono una freschezza ed un’inesperienza che ti restituiscono passione ed energia, e mentre cambi tu ti accorgi che cambiano anche loro, in una reciproca trasmissione di valori e speranze che può valere l’impegno di una vita spesa al servizio della cultura e della politica.

Nella mia piccola esperienza professionale, ho avuto l’onore non solo di collaborare con la rivista che Andreatta fondò oltre trent’anni fa ma anche di conoscere da vicino i suoi luoghi, di incontrare alcune delle persone che hanno lavorato con lui, fianco a fianco, per tanti anni e di frequentare la Scuola di Politiche a lui intitolata. Ebbene, basta il nome di Andreatta per dare un senso all’impresa: un po’ come quei simboli che non passano mai di moda, quegli esempi che alla fine riemergono, riaffiorando dalle nebbie della barbarie e dell’incompetenza, della malvagità gratuita e del pressappochismo, in quanto l’andreattismo costituisce una sorta di filosofia di vita, una precisa concezione della politica e della società, una visione d’insieme, potremmo quasi dire un modo di essere, di rapportarsi con gli altri e di scoprirne i singoli aspetti fino a comporre un quadro di valori condivisi.
Andreatta ci lasciò una prima volta nel dicembre del ’99, quando venne colpito da un malore devastante, e poi, definitivamente, il 26 marzo di dieci anni fa, mentre l’Unione del suo allievo Prodi arrancava fra mille difficoltà e mentre si accelerava il percorso per dar vita ad un partito che, nato frettolosamente e senza un adeguato pensiero della crisi, purtroppo si è rivelato un sostanziale fallimento, al netto delle tante persone di spessore che ne hanno fatto o ne fanno tuttora parte.
E in dieci anni il suo nome l’ho sentito citare pochissime volte, al massimo in qualche trafiletto, spesso in occasione della pubblicazione di qualche numero monografico della rivista AREL, come ad esempio quello appena uscito, a cura di Enrico Letta e Mariantonietta Colimberti, con il titolo: “L’Europa di Andreatta”, trattandosi di una figura sostanzialmente antitetica ai disvalori e alla demagogia asfissiante oggi tanto in auge.

Già, l’Europa: la missione e l’utopia di un uomo che decise di far suo il sogno visionario dei padri fondatori e di rilanciarla come progetto collettivo quando ancora non si sapeva se il nostro Paese avrebbe avuto i requisiti necessari per farne parte. E attenzione: non è vero che Andreatta guardasse all’Europa per mancanza di fiducia nelle energie e nelle risorse dell’Italia; al contrario, guardava all’Europa per porre un argine alla deriva e allo scempio di risorse pubbliche che l'”Anonima partiti”, come la chiamava con disprezzo, compì negli anni Ottanta, privando le generazioni successive di ogni speranza, di ogni prospettiva e persino della possibilità di avere un lavoro dignitoso e un orizzonte pensionistico adeguato.
Andreatta non taceva: parlava espressamente di furto, di indecenza e anche per questo pagò un prezzo altissimo, un’esclusione sistematica dal governo, un esilio decennale impostogli da piccoli uomini senza dignità di cui Tangentopoli si è poi incaricata di rivelarci il vero volto, finché non fu richiamato in servizio nei giorni della disperazione, quando la Repubblica vacillava sotto i colpi delle inchieste giudiziarie del pool di Mani Pulite, e dell’incertezza per un avvenire che si profilava già dei peggiori, fra partiti storici morenti, o già morti, almeno dal punto di vista ideologico e degli antichi ideali professati, e berlusconismo arrembante.
Andreatta era un uomo che guardava avanti, sempre, trasformando il futuro in un programma esistenziale, in un dovere morale, diremmo quasi in un’ossessione, mai declinata però nei termini di un nuovismo asfissiante, di una leggerezza prossima alla fatuità, di una smania arrivista improntata al perenne opportunismo, alla sopraffazione del prossimo, alla mancanza di rispetto per chi ha più esperienza, più cultura, più competenza.
Per Andreatta il futuro era la meta di un viaggio da affrontare insieme, senza mai perdere di vista il valore della comunità, senza mai scadere nel personalismo, senza mai anteporre l’aberrazione dell'”io” all’importanza del “noi” e della capacità di trarre il meglio dagli altri.
L’Europa di Andreatta era la stessa che avevano in mente Spinelli, De Gasperi e Delors: non quest’Europa arcigna, egoista ed incapace di farsi carico dei drammi e delle esigenze dei suoi paesi più fragili bensì un’Europa solidale, basata sulla sussidiarietà, su regole precise e rispettate da tutti e sul sogno di dar vita ad una compiuta Unione politica, in grado di creare una sovranità continentale e autenticamente democratica.
Il caso ha voluto che il sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma che istituirono la CEE (Comunità Economica Europea) cadano in prossimità del decimo anniversario della scomparsa di un gigante la cui vitalità e vivacità intellettuale fu alla base della nascita dell’Ulivo e di una sinistra finalmente unita che avrebbe potuto e dovuto proseguire lungo il proprio cammino.
Mi è capitato spesso di affacciarmi dalla finestra centrale dell’AREL e di guardare in lontananza, così come mi è capitato spesso di passeggiare o di fermarmi a pranzo in piazza Santi Apostoli, in silenzio, a riflettere, e in quei momenti ho pensato che tutto oggi sia andato perduto, tranne il desiderio di provare a costruire un domani. E ho pensato anche che, al pari della sua figura straordinaria, in quest’Europa in cerca di identità pure le sue idee possano tornare d’attualità, sperando che trovino presto gambe sufficientemente robuste per camminare e farsi strada.


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