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Antonio Tabucchi: ritratto di un idealista malinconico

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Se ne andò cinque anni fa, troppo presto, a soli sessantotto anni, sconfitto da un tumore e circondato da quell’aura malinconica che lo caratterizzava negli ultimi anni. Se ne andò afflitto da quella che i portoghesi chiamano “saudade”, come se avvertisse, al contempo, una profonda nostalgia per la propria terra e un senso di necessario, diremmo quasi fisiologico distacco da un’Italia che amava ma non riconosceva più. Troppo volgare, troppo gaudente, troppo berlusconiana, troppo esagerata, troppo in tutti i sensi gli appariva ormai questa Nazione, sconfitta dai suoi limiti e dai suoi demoni, contro cui Tabucchi scagliava parole di disperata bellezza e di tragico sconforto, con lo stato d’animo di un amante tradito e un senso di sconfitta che lo pervadeva in ogni angolo del corpo, al pari di quelle cellule malate che purtroppo ce lo hanno portato via quando aveva ancora tanto da dire e tante nefandezze da condannare.
Per me Tabucchi rimarrà per sempre legato al suo capolavoro: l’affresco di un disincantato giornalista portoghese ai tempi della dittatura di Salazar magnificamente portato sul grande schermo da Marcello Mastroianni, protagonista di “Sostiene Pereira”; un grido di ribellione, un urlo contro tutti i regimi e le tirannidi, un invito a conoscere, a capire, a scoprire e a sapere ma, soprattutto, un’esortazione a non abbassare mai la guardia, in quanto i fascismi sono sempre fra noi, per nulla parentesi ma, al contrario, drammatiche costanti di una storia europea in bilico fra passato e futuro, emancipazione e cedimento retrogrado, meraviglia e orrore, analisi critica e pressappochismo disinformato e, proprio per questo, assai pericoloso.
Antonio Tabucchi era un intellettuale a ventiquattro carati, uno scrittore dotato di una passione civile fuori dal comune e un pittore di idee, paesaggi morali, visioni del mondo e narrazioni graffianti e sempre capaci di penetrare l’anima dei lettori.
Era un uomo incapace di tacere dinanzi all’ingiustizia e alla barbarie, un sognatore gentile, un oppositore garbato ma estremamente fermo, tanto che la sua vita potrebbe essere definita anche alla stregua di una lunga opposizione che non ha mai trovato un approdo, in un tumultuoso procedere di giorni segnati da una sorta di auto-esilio che pure viveva con incredibile dignità e accettazione dell’esistente.
Amava il Portogallo, ci viveva e ci ha regalato traduzioni epocali di Fernando Pessoa e della sua arte di frontiera: un arte che ha scandito un secolo, il Novecento, talmente denso di storia e di eventi da far apparire il nostro tempo avaro di emozioni e di prospettive, di ragioni di vita, di sentimenti, di un qualcosa per cui battersi e in cui credere.
Tabucchi riusciva a trovare dentro di sé i motivi di una battaglia tenace, combattuta sempre in prima persona, con le armi della penna e del sapere, della prosa e della riflessione giornalistica raffinata, al punto che è impossibile leggere le vicissitudini di Pereira e non scorgere il disincanto autobiografico di un uomo che, ormai cinquantenne, stava assistendo al progressivo disfacimento del proprio Paese.
Pereira, infatti, altro non è che la voce interiore di un narratore in lotta non solo con le dittature esplicite e spietate ma, più che mai, con quelle striscianti, subdole e, proprio per questo, di gran lunga più difficili da individuare e contrastare; è la rabbia di uno scrittore nemico di ogni conformismo, di ogni ipocrisia e di ogni asservimento; è l’alter ego di una persona matura che si sente tuttavia spaventosamente inadeguata e, pertanto, riflette su se stessa, sui propri giorni e sul proprio impegno in favore della società.
Tabucchi era, dunque, un narratore al servizio dell’umanità, un sostenitore di cause giuste e di battaglie che vale sempre la pena compiere, anche quando si è in pochi; anzi, soprattutto quando si è in pochi e tutto sembra ormai perduto.
E questo discorso vale per l’intera opera tabucchiana, per ogni suo articolo, per ogni appello che sottoscrisse e per tutta l’eredità che ci ha lasciato: un patrimonio da custodire gelosamente e trasmettere con cura alle future generazioni, con l’auspicio che avvertano sempre in sé il desiderio di ribellarsi all’iniquità e alla barbarie.
Cinque anni fa, sembra passato un secolo e la sua voce assente ci manca più di altre, ora che avremmo bisogno di simboli, segnali, ancore alle quali aggrapparci o anche solo persone perbene alle quali ispirarci per continuare a lottare, in questa battaglia campale contro tutte le dittature, e in specie contro quelle moderne, la cui violenza e malvagità è costantemente sotto i nostri occhi. Perché si deve, perché è giusto così, perché non possiamo e non dobbiamo smettere di denunciare le libertà che stiamo perdendo e la dignità umana che sta venendo meno in questi anni sbagliati e devastanti.


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