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Aki Kaurismaki dà il voto ai governi europei. Zero in accoglienza

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“Ancora” un film sui migranti, sui clandestini in fuga dai massacri mediorientali? Ma sì. Solo che dietro la cinepresa, con l’inconfondibile umorismo stralunato e il pudore poetico che da trentacinque anni sono la sua cifra, c’è Aki Kaurismaki. Con “L’altro volto della speranza“, il finlandese al Festival di Berlino si è portato via “solo” l’Orso d’argento per la regia, che non ha nemmeno fatto finta di gradire. Ma intanto ci illumina sulla possibilità di raccontare la solidarietà e l’accoglienza da parte degli oscuri e dei marginali senza uggiosi sentimentalismi né sbrodolature retoriche. Scusate se è poco.

Il minimalismo di Kaurismaki sembra nato apposta per rovesciare la frittata delle statistiche ufficiali e delle logiche istituzionali. Diciamo che il suo punto di vista non ha mai cambiato indirizzo: resta inchiodato, in metafora, a quella “Desolation Row” che in traduzione De Andrè-De Gregori da noi suonava “Via della povertà“.
Esattamente come la sua estetica resta fedelmente inchiodata agli interni anni ’50 e ai detriti da proletariato scandinavo. Da lì continua a sgorgare, per lui, il miele dell’umana bontà, che è fuorilegge sotto qualsiasi bandiera.

Di un clandestino parlava anche “Miracolo a Le Havre“, che è di ben sei anni fa, ma nella “sua” Helsinki il più rocchettaro dei maestri nordici si prende il lusso di dimostrare l’impraticabilità delle vie legali, per i rifugiati. Khaled è scampato ai bombardamenti di Aleppo, si è nascosto su un cargo e rispetta le procedure: si presenta alla polizia e chiede asilo politico. Finisce invece in un centro di accoglienza, con ordine di rimpatrio. Kaurismaki è allergico ai pistolotti: si limita a giustapporre i resoconti tv sulle carneficine siriane e l’assurda, spietata, “aritmetica umana” delle istituzioni. Ad aiutare Khaled, a sfamarlo, alloggiarlo, dargli un lavoro, a scovargli un falsario di documenti d’identità, sarà il quartetto improbabile che gestisce un ristorante deprimente e depresso. Il nuovo proprietario ha piantato la moglie in una sequenza iniziale di glaciale (e muta) comicità . E i tre dipendenti che ha ereditato si esercitano a escogitare per il locale riconversioni balorde, dal Sushi Bar (ma con le aringhe salate al posto del pesce fresco!) alla sala da ballo.

Da ballo, perché di musica tanta, nel film, come e più di sempre nelle opere di Kaurismaki: qui c’è una vera abbuffata di rockabilly finnico, un campionario di buskers nostalgici e attempati. La musica è un “must”, come il cane, che nei film di Aki è una presenza di rigore, un marchio di qualità, come i camei di Hitch. Di solito usa il suo cane di casa. Per questa cagnetta però (“irregolare”, nel ristorante, proprio come Khaled ) non garantisco. Non ho notizie di prima mano. I buoni di Kaurismaki sono disadattati, burberi, afasici e non sorridono mai. Sono le inquadrature fisse e l’impassibilità dei suoi attori abituali a rendere irresistibili certe battute. Khaled che esce dal bagno dove l’hanno nascosto col cane per l’ispezione dell’ufficio d’igiene: “È intelligente questo cane. Gli ho insegnato un po’ di arabo e si è convertito all’islamismo”.

Detta così non fa ridere, ma noi zoccolo duro del finlandese ci sbellichiamo. Come per l’incongruo ritratto di Jimi Hendrix nel ristorante rétro. Come per Wikstrom il ristoratore che si descrive con le parole dello Shylock shakespeariano, o per la pianta di cactus che fa pendant con i bigodini della moglie piantata. Sono barlumi di assurdo. Uno che guarda la vita da outsider non rischierà mai l’etichetta di “politicamente corretto”. Lui marcia contromano.
Cito un esempio paradossale, tanto per restare nel “mood”. Da vent’anni continuo a ridere su due “lines” di “Nuvole in viaggio”. Marito e moglie, come sempre poveri e grigi. Lui: “Porto giù il cane?”. Lei: “Sì”. Non so. Sono molto stupida io o è molto bravo Kaurismaki? Probabilmente entrambe le cose.

Fonte: “Huffington Post”


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