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Turchia: l’accesso alle informazioni ai tempi di Erdoğan. Il dossier di Osservatorio Balcani Caucaso

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Nelle democrazie occidentali avere un’opinione e poterla esprimere rappresenta un diritto. Definito generalmente come “libertà di espressione”, questo diritto umano fondamentale abbraccia anche il diritto di informarsi, cioè di avere accesso a un’informazione diversificata, che si occupi dell’operato delle autorità pubbliche e che miri a tutelare l’interesse generale.

Il diritto dei cittadini di accedere alle informazioni è collegato alla libertà di espressione così come definita nell’articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948. Tale collegamento, a lungo controverso, è stato esposto ad interpretazioni giuridiche. A partire dagli anni 2000 i parlamenti nazionali hanno dato alla questione una forma legale, definita “diritto all’informazione”, stabilendo i doveri spettanti alle autorità pubbliche nell’informare la popolazione riguardo alle operazioni da loro effettuate (accesso proattivo) e di rispondere alle richieste di ricevere informazione sulle stesse (accesso reattivo).

Come ogni diritto, anche il diritto di accedere all’informazione non è illimitato. Le eccezioni al diritto di accedere all’informazione sono rappresentate da una serie di impedimenti che vanno dalla sicurezza nazionale alla protezione della privacy, che di per sé possono essere considerate sensate e necessarie, mentre nella pratica comportano importanti limitazioni all’utilizzo di questo diritto. Come già in molte altre realtà politiche nel mondo, anche in Turchia queste eccezioni al diritto di informazione si stagliano di fronte ai cittadini e ai giornalisti nella forma di una violenza di stato rigida, dura e spesso limitatrice delle libertà individuali, se non addirittura mirata al diritto alla vita.

Le post-verità
Il concetto divenuto recentemente noto con l’espressione “post-verità” risulta essere direttamente collegato al diritto pubblico di accesso all’informazione. Le politiche neoliberali che, a scapito di larghi settori popolari, mirano a eliminare completamente gli ostacoli incontrati dal capitale, rappresentano anche una seria minaccia per la legittimità dei governi. Ci troviamo in un periodo in cui probabilmente il numero di cose che vengono nascoste alla popolazione risultano in aumento per “ovviare” a simili preoccupazioni. Più il potere politico quanto quello economico iniziano a oltrepassare i limiti della legittimità più si allontanano dalla condivisione della verità, e allo stesso tempo operano nascondendo e distorcendola.

Basti ricordare i whistleblower che hanno dimostrato quante informazioni sono state nascoste al pubblico – venendo di conseguenza distorte – soprattutto da parte del potere globale riunito sotto la leadership di Bush e Blair, a cominciare dall’intervento in Iraq del 2003, con il fine di ottenere consenso attivo. I documenti Wikileaks, con l’ampia eco suscitata nel 2011 in tutto il mondo, hanno dimostrato che gli affari segreti condotti dai governi risultano essere estremamente compromessi, evidenziando ancora una volta l’importanza di potere accedere all’informazione pubblica.

Non so se i whistleblower possono essere definiti come i giornalisti della nuova era, ma nei paesi che vengono considerati come la culla del mestiere le attività giornalistiche sono sempre state viste come un’importante risorsa per l’utilizzo del diritto di accesso all’informazione di dominio pubblico; ai giornalisti è stata assegnata una posizione privilegiata nell’accesso all’informazione riguardante i governi (journalist’s privilege). Tuttavia, non si può dire che questo privilegio sia mai stato utilizzato senza incorrere in problemi – oggi come in passato – anche nei paesi dove la cultura democratica è ben radicata. Per quanto riguarda i paesi come la Turchia, invece, il giornalismo non solo non è mai assurto ad uno status privilegiato, ma rappresenta un ambito che il potere desidera ardentemente porre sotto il proprio controllo e dove i giornalisti dell’opposizione lottano rischiando a volte anche la vita. Oggi più che mai…

Le porte di accesso all’informazione in Turchia e quelli che stanno sulla soglia
Nel Medio Oriente, la Turchia quale “democrazia inquieta” che guarda l’Occidente, produce da tempo normative necessarie per la propria adesione all’Unione europea. In questo processo, uno degli anelli legati alla libertà di espressione è la Legge numero 4982 sul diritto di informarsi, approvata il 24 ottobre 2003 ed entrata in vigore il 24 aprile 2004. Essa è “intesa a regolare nel merito e nelle modalità l’utilizzo del diritto delle persone ad essere informate conformemente ai principi di uguaglianza, imparzialità e trasparenza, così come richiesto da un’amministrazione democratica e trasparente”.

Uno dei diritti riconosciti da tale legge è messo in atto dal centro di comunicazione della presidenza del consiglio (BIMER) che i cittadini possono utilizzare come un canale per presentare le proprie domande, il cui numero risulta in costante crescita1.

Fonte: BIMER, https://www.bimer.gov.tr/bimer-sayisal-verileri (1.2.2017)
Tuttavia l’organismo centrale per informare il pubblico dovrebbe essere il parlamento dove vengono discusse e decise le politiche pubbliche. I dibattiti dei partiti in parlamento, le mozioni e le interrogazioni parlamentari, rappresentano una fonte importante di notizie per i giornalisti nel tentativo di togliere il velo di segretezza riguardante le politiche pubbliche. Ma questi tentativi riescono raramente ad andare oltre alcuni numeri che di norma vengono preparati dalla burocrazia delle istituzioni pubbliche e che in verità nascondono il nocciolo della questione. Inoltre, la percentuale delle riposte fornite in tempo alle interrogazioni parlamentari scritte, presentate dai deputati alla presidenza del parlamento, risulta alquanto bassa. Ad esempio, la risposta fornita all’interrogazione parlamentare presentata il 27.6.2016 dal deputato Ahmet Akın del Partito repubblicano del popolo (CHP), principale formazione di opposizione, evidenzia che solo il 7,82% delle 841 interrogazioni parlamentari presentate nella 26ma legislatura hanno ottenuto una risposta entro i tempi previsti, mentre il 53,42% non ha ricevuto alcuna risposta. Il numero maggiore di interrogazioni inevase risultano essere quelle rivolte al premier (946) e al ministro dell’Interno (589).

Secondo il rapporto di attività del Parlamento riferito al periodo tra il 17 novembre 2015 – 30 settembre 2016 sono state presentate 8.469 interrogazioni scritte e 563 interrogazioni orali. L’esecutivo ha risposto a 2.767 delle prime e a 51 delle seconde. Nel presente anno di legislatura sono state presentate 15 mozioni per una discussione parlamentare, 14 interpellanze, 1221 proposte di indagini conoscitive, 2 proposte di inchiesta parlamentare, ma nessuna di queste è ancora stata discussa.

Oltre alle interrogazioni poste dai deputati ci sono anche quelle presentate dei cittadini. Secondo il rapporto del Parlamento riferito al primo anno della 26ma legislatura hanno ricevuto il numero più alto di domande da parte dei cittadini la Commissione per le petizioni, la Commissione di studio sui diritti umani e la Commissione per le pari opportunità. Nello stesso periodo, alla prima Commissione sono state presentate 1.922 domande individuali e 1.608 domande collettive, con queste ultime sottoscritte da 31.163 persone (p. 128). Alla Commissione di studio sui diritti umani risultano presentate 1.761 domande, di cui prese in esame 1.431, per buona parte riguardanti i detenuti e i condannati (p. 137).

Con l’emendamento costituzionale del 2010 e come indicato nel Programma nazionale riguardante le linee guida del processo di adesione della Turchia all’UE, nell’ambito dell’accesso dei cittadini all’informazione è stata aggiunta una nuova istituzione costituzionale, quella del “mediatore civico, entrato in vigore dopo la pubblicazione sulla gazzetta ufficiale n. 28338 del 29 giugno 2012, della relativa legge n. 6328 che istituisce il ruolo istituzionale del mediatore civico (Ombudsman) legato al parlamento e provvisto di un bilancio autonomo che, con una concezione di giustizia fondata sui diritti umani, ha il compito di studiare e analizzare dal punto di vista dell’aderenza ai principi di diritto e di equità ogni tipo di azione e operazione dell’amministrazione e di presentare proposte a riguardo”. Questa istituzione ha iniziato a ricevere denunce a partire dal 29 marzo 2013. Secondo i dati riferiti al 2015, la capacità dell’Ombudsman di rispondere alle denunce è relativamente alto, con una percentuale dell’86%.

Si possono contare centinaia di esempi che dimostrano come tutte queste modifiche, che riconoscono ai cittadini il diritto di informarsi sulle pratiche amministrative che li riguardano, nella pratica non servono a granché. Un caso ha trovato ampio spazio nei media di opposizione e in quelli orientati a sinistra in particolare. Nel 2011 in una piccola cittadina del nord-est della Turchia, nel corso di una protesta iniziata per via della visita del premier, i manifestanti vennero irrorati con una grande quantità di gas lacrimogeno e un insegnante di nome Metin Lokumcu perse la vita. Un cittadino aveva voluto sapere quanto gas lacrimogeno fosse stato utilizzato dalle forze di sicurezza. Non avendo ricevuto dalle unità responsabili una risposta precisa – ciò significa che l’amministrazione pubblica non ha riconosciuto il diritto dei cittadini di ottenere l’informazione richiesta – si rivolse ad un tribunale. Ma la polizia non ha risposto nemmeno all’ingiunzione di dare una risposta arrivata dal tribunale, sostenendo che si trattava di un “segreto di stato”. Nonostante il tribunale amministrativo avesse già deliberato che l’informazione richiesta non costituiva un segreto di stato. Quindi un’informazione importante sulla violenza spropositata attuata durante la manifestazione, risultata nella morte di una persona, è stata nascosta al pubblico.

Un altro caso esemplare è dato dalla perseveranza con cui al pubblico è stato impedito di sapere se la figura alla guida dello stato abbia rispettato le condizioni necessarie a ricoprire quella carica o meno. Una delle condizioni per diventare presidenti della repubblica in Turchia è infatti quella di essere laureati. A partire dal maggio 2016 sulla stampa d’opposizione è iniziata a circolare la notizia secondo la quale il presidente Recep Tayyip Erdoğan era privo di un diploma di laurea quadriennale. I partiti d’opposizione hanno mantenuto alta l’attenzione sulla questione, raccogliendo ampio sostegno da parte dell’opinione pubblica per impedire che Erdoğan diventasse presidente, ma nonostante abbiano presentato delle prove convincenti non si è ottenuto il risultato atteso.

Cacciati dalla soglia e mandati ad affollare le prigioni: i giornalisti
I giornalisti sono indubbiamente considerati gli attori più importanti per quanto riguarda l’utilizzo del diritto di accesso all’informazione. Ma i giornalisti, come conseguenza delle forme tradizionali del sistema politico turco, si trovano spesso a dover utilizzare metodi che non percorrono le vie ufficiali e anche se riescono a trovare l’informazione ricercata, le crescenti decisioni di segretezza non fanno che approfondire il problema dell’accesso all’informazione.

Nell’affrontare i problemi riscontrati dai giornalisti nell’accesso all’informazione sarà probabilmente utile distinguere livelli diversi. Innanzitutto, la storia del giornalismo in Turchia è strettamente legata alla storia politica, sociale ed economica del paese. Uno dei motivi per cui si rende necessario specificare questo legame risiede nel fatto che in questo paese capitalista dove si prendono a modello le democrazie occidentali, il giornalismo non risulta vissuto come un ambito che abbia una relativa autonomia né da parte dei giornalisti e nemmeno da quella dei lettori. In Turchia quando non si è riusciti a ottenere un consenso attivo si è sempre fatto ricorso alla forza, mentre il potere statale è sempre stato pronto a far tacere i giornalisti utilizzando diversi metodi, obbligandoli – ma soprattutto obbligando i proprietari e i dirigenti dei media – a scegliere una parte politica, includendoli in qualche modo nei meccanismi di potere.

Le politiche neoliberali attuate negli anni ‘80 hanno vissuto, per così dire, un “periodo d’oro” durante gli anni di governo dell’AKP. Oggi il più grande ostacolo davanti all’accesso dei giornalisti all’informazione non sono i divieti diretti, ma quelli indiretti che possono condurre fino in prigione. Anche le più semplici forme giornalistiche che risultano però essere critiche nei confronti del governo portano le persone alla disoccupazione, ad incorrere nei tribunali in processi a proprio carico e a lottare nelle carceri con pratiche cui si fa fatica a credere. Le nostre leggi non sono così male, disponiamo di testi all’altezza delle democrazie occidentali, abbiamo enti, istituzioni e meccanismi di controllo che sono comparabili con queste ultime. Tuttavia è possibile affermare che a causa di una particolare forma di illegalità i giornalisti tendono ad abbandonare completamente il loro compito di illuminare il pubblico.

Lo stato, non contento dell’azione dell’attuale Legge su Internet e delle proprie forze dell’ordine, il 6 febbraio 2014 ha istituito un nuovo ente con statuto giuridico, l’Unione dei provider (Erişim Sağlayıcıları Birliği) tramite il quale ha iniziato a bloccare l’accesso ai siti web non graditi in maniera più rapida. L’Unione dei provider ha la funzione di comunicare ai provider le decisioni di oscuramento riguardanti i “crimini” che non rientrano in quelli dell’elenco stabilito dall’articolo 8 della Legge n. 5651 sul regolamento delle pubblicazioni della rete e sulla lotta contro i crimini commessi attraverso queste pubblicazioni. Il segretario generale di questa Unione si può permettere di rilasciare dichiarazioni come: “I social media sono un’impresa commerciale, per questo motivo non possono essere rappresentativi della libertà d’espressione”. Questa affermazione è stata pubblicata su un ente di informazione semi-statale ma non esiste un solo organo che discuta, critichi, condanni a livello pubblico una tale assurdità di pensiero o un’autorità che tolga l’incarico a questa persona incompetente…

Oramai è quasi totalmente impossibile fornire informazioni corrette sugli attacchi che avvengono nelle città turche al confine [sudorientale a maggioranza curda, ndt] e nelle metropoli. Se la notizia riesce a essere in qualche modo diffusa tramite i social media, subito dopo viene posto un bando che vieta la pubblicazione della notizia in un qualsiasi ambito pubblico, mentre se qualche media decide comunque di pubblicarla va incontro a una penale, ne viene richiesto il blocco degli account sui social media, e alle volte i giornalisti e gli stessi utenti che fanno uso dei social media vengono fermati e arrestati. Dopo lo stato d’emergenza dichiarato in seguito al fallito golpe del 15 luglio 2016, i divieti e le violazioni dei diritti sono aumentati in maniera esponenziale.

Le proteste di Gezi Park del 2013, la “tangentopoli del 17-25 dicembre”, i massacri di massa che vengono (o non vengono) rivendicati dall’Isis (Stato islamico) e dal PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan) e il fallimentare tentativo di golpe del 15 luglio 2016, vengono presentati come una giustificazione della sospensione dei diritti umani, incluso quello di ricevere informazioni. Il “divieto di diffusione delle notizie” che viene imposto immediatamente dopo ogni esplosione, rende impossibile accedere a informazioni riguardanti fatti estremamente importanti a chi resta fuori dai circoli del potere politico.

Ma non finisce qui. Quando qualcuno condivide con il pubblico qualche briciola di informazione va incontro a pesanti penali. Per esempio, il quotidiano Özgür Gündem, voce della lotta per la libertà dei curdi dal 1994, dopo il tentato golpe del 15 luglio ha subito un blitz della polizia, nel corso del quale tutte le persone che si trovavano nell’edificio, editori inclusi, sono stati tartassati e posti sotto fermo. Aslı Erdoğan e Necmiye Alpay, che facevano parte del comitato di consulenza del quotidiano, sono rimaste in prigione per mesi interi. È un modo di dare un messaggio a quanti si dimostrano solidali con i media curdi. Anche i giornalisti e gli attivisti per i diritti, che in segno di solidarietà con lo stesso giornale ne erano diventati per un giorno capi redattori, sono finiti nei corridoi dei tribunali e nelle prigioni con l’accusa di “propaganda dell’organizzazione terroristica” [ci si riferisce al Partito dei lavoratori del Kurdistan – PKK, ndt].

Il quotidiano Cumhuriyet, una delle poche voci critiche e alternative ai media pro-AKP (Partito della giustizia e dello sviluppo) sempre più numerosi dal 2007, da una parte ha dovuto affrontare sanzioni fiscali; dall’altra, il suo staff – dal direttore di testata al barista – sono finiti in prigione con accuse legate ad azioni di “terrore”. E si trovano ad affrontare accuse su fatti che non sono considerati reato, testi d’accusa inesistenti e incarcerazioni che durano mesi…

Stiamo parlando di un paese governato da un presidente della Repubblica che si arrabbia per una domanda posta da un giornalista, gli risponde che sta facendo “domande da traditore” e che utilizza il “reato di vilipendio” in maniera spropositata per far tacere gli oppositori. Di conseguenza, per poter parlare del diritto di accesso all’informazione dei giornalisti bisogna essere o estremamente ottimisti, oppure di parte.

Tutte queste condizioni vanificano in gran parte i testi giuridici in cui viene tutelato il diritto di informazione del pubblico, di accesso all’informazione e di espressione in Turchia, e in cui la parola democrazia viene adoperata in maniera ricorrente. Ciò che resta, invece, sono le speranze di un gran numero di persone, di lettori e spettatori che nonostante tutto difendono la propria vita e il futuro dei propri figli, senza fare uso di espressioni ricercate e che vogliono avere accesso alle informazioni non perché lo prevede la legge, ma perché ne sentono veramente il bisogno26 assieme al prezioso lavoro di quei giornalisti fragili ma forti d’animo che per rianimare questa speranza continuano a fare il loro mestiere.

Per saperne di più sul tema dell’accesso alle informazioni in Turchia vai all’articolo dedicato su Wikipedia che abbiamo realizzato nell’ambito dell’iniziativa “Wiki4MediaFreedom“. Tutte le voci create sono disponibili anche sul Resource Centre per la Libertà di stampa.


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