Un nuovo giro di vite impresso dalle autorità giudiziarie turche ha portato all’arresto di centinaia di uomini d’affari sospettati di avere legami con Fethullah Gulen, imam auto-esiliato negli Stati Uniti, ritenuto ispiratore del tentativo di colpo di stato dello scorso anno in Turchia.
I procuratori hanno emesso mandati d’arresto per 380 persone accusate di aver fornito sostegno finanziario alla rete di Gulen.
Due settimane fa la polizia aveva già arrestato Yahya Uzdiyen e Erem Turgut Yucel, rispettivamente ex amministratore delegato e direttore legale di Dogan, holding che detiene il controllo del giornale Hurriyet, della rete televisiva CNN-Turk e “Trump” di Istanbul.
Il governo finora ha confiscato il patrimonio di centinaia di aziende, ha licenziato oltre 100.000 funzionari pubblici e arrestato 30.000 tra insegnanti, personale di sicurezza, ufficiali dell’esercito, politici dell’opposizione e giornalisti. I colleghi finiti in carcere ad oggi sono oltre un centinaio.
Attraverso un comunicato la società Dogan, che ha interessi nei media, nel settore dell’energia e nel business immobiliare, fa sapere che gli arresti di Turgut e digi Uzdiyen e le incursioni nelle loro abitazioni e uffici non avranno alcun impatto sulle operazioni della holding o delle sue controllate, nonostante le azioni siano scese del 10 per cento dopo la notizia del blitz della polizia.
Sia prima che dopo il putsch fallito il presidente Recep Tayyip Erdogan non ha mai nascosto la sua avversione per Aydin Dogan, il fondatore del gruppo.
Esponente di spicco dell’elite che ha preceduto l’ascesa di Erdogan al potere nel 2001, Dogan ha esercitato una notevole influenza sulla politica turca essendo uno degli uomini più ricchi del paese.
I suoi giornali sono sempre stati poco entusiasti di Erdogan e apertamente critici con il suo governo.
Da quando il potere del presidente si è consolidato le aziende di Dogan sono state boicottate e danneggiate fino al punto che il capo dell’azienda, dopo essere stato costretto a pagare una multa di 3,8 miliardi di dollari, ha dovuto vendere due quotidiani e non ha potuto impedire il declino del suo impero economico, sgretolandosi giorno dopo giorno fino a intaccare i suoi beni personali.
Dogan è passato dall’essere il primo contribuente per reddito della Turchia nel 2010, al 37° posto nel 2014. Fino alla caduta in disgrazia, lo scorso anno, con l’incriminazione di contrabbando di petrolio.
Quello adottato nei confronti del magnate dei media è un modus operandi ricorrente.
Gli avversari, o semplicemente ‘critici’, di Erdogan si ritrovano ben presto incriminati, intralciati nelle attività economiche e professionali fino ad avere un’unica scelta: finire in carcere o lasciare il Paese come ha fatto Gulen.
E ora che il presidente turco è riuscito a incassare anche la riforma costituzionale, che di fatto aumenta i suoi poteri, nessuno sarà più in grado di arrestarne la deriva autoritaria.
Ieri è stata annunciata la data del referendum, il 16 aprile, che dovrà confermare il nuovo sistema presidenziale esecutivo con il voto popolare, che appare pressoché una formalità, sul disegno di legge approvato dal Parlamento il mese scorso senza raccogliere la maggioranza dei due terzi necessaria per diventare subito esecutivo.
La revisione della Costituzione permetterà a Erdogan di correre per altri due mandati, garantendogli di fatto di restare al potere fino al 2029. Con l’ok dalla consultazione referendaria, in Turchia si aprirà l’era dell’uomo solo al comando con pochi controlli e contrappesi.
Alla purga su larga scala nei confronti di dipendenti pubblici, giornalisti e i parlamentari filo curdi, c’è da aspettarsi una nuova stretta sull’opposizione e sui media.
L’azione repressiva voluta da Edogan negli ultimi mesi non ha risparmiato neanche lo sport. Le autorità turche hanno infatti emesso un mandato d’arresto per l’ex calciatore di fama internazionale Hakan Sukur, che ha giocato anche in Italia.
Sukur è accusato dalla Procura di appartenere al presunto ‘gruppo terroristico’ che farebbe capo a Gulen.
Il 44enne, ex stella della nazionale di calcio turca, ha lasciato il Paese con la sua famiglia lo scorso anno, dopo aver concluso la sua carriera sportiva nel 2008.
Nel 2011 era stato eletto consigliere del partito di governo Giustizia e sviluppo (Akp) alle consultazioni locali di Istanbul, ma due anni dopo aveva rassegnato le dimissioni rompendo con la forza politica guidata dall’attuale presidente della repubblica e aveva aderito al nuovo progetto politico di Fethullah Gulen. Nel 2015 lo stesso Erdogan lo aveva citato in giudizio per offese al capo dello Stato.
Sukur, che ha indossato anche con le maglie di Milan, Torino, Inter e Parma, rischia fino a quattro anni per alcuni tweet pubblicati sul suo profilo Twitter.
La china, ormai, è inarrestabile: chiunque esprima liberamente il proprio pensiero in Turchia, contrapponendosi al regime di Erdogan, diventa un obiettivo da abbattere.