E se il caso Sky facesse scuola, portando pure Mediaset a trasferire gran parte delle attività romane a Milano? Rumors, neppure improbabili. E sì, perché la Roma laica e secolare sembra davvero figlia di un dio minore, con la profezia che – come sempre – si autoavvera. A furia di dire che la capitale è ormai persa alla causa della nazione, investitori e patron pensano bene di andare nella blasonata cittadella meneghina, tanto più che l’allora seducente ceto politico ha perso parecchio del suo presunto fascino.
Torniamo alla vicenda di Sky, davvero emblematica di come funzionano le cose nell’era attuale delle relazioni aziendali e delle spietate culture di impresa. L’azienda del tycoon anglo-australiano, mirabilmente descritto da “Apocalypse Murdoch” (G.Benigni, 2003), nel primo semestre dell’esercizio 2016-2017 ha aumentato i profitti in modo significativo, di quasi il 10%. Detiene il 15% del mercato televisivo e compra a man bassa costosissimi diritti sportivi. Senza essere, dunque, in situazione di crisi, anzi, secondo le affermazioni dell’amministratore delegato Andrea Zappia, in crescita, “Sky Italia” decide 300 trasferimenti da Roma a Milano nonché 10 da Cagliari, e sancisce la bellezza di 200 esuberi: 120 in via Salaria e 80 a Rogoredo.
Nelle prossime ore potrebbe tenersi un incontro tra le parti. Speriamo, anche se la direzione della pay-tv non ha dato importanza alle audizioni con il comune di Roma e con la Regione Lazio, da cui pure è emerso l’interesse da parte delle istituzioni locali a trovare una soluzione rispettosa, che non si riduca ad una piccola fiammella redazionale per il servizio politico e il centro sud. Che si riannodi il dialogo, prima di assistere inerti ad esiti esiziali per un settore complessivamente in difficoltà pur con piccoli segni +, secondo il “Focus R&S-Mediobanca”. Non solo. E’ vero che Sky nasce nel 2003 dalla fusione tra “Tele+” e “Stream Tv” utilizzando la piattaforma satellitare, ma fa uso delle frequenze terrestri con “SkyTg24”, “Cielo” e “Tv8”. Laddove le risorse sono limitate, a maggior ragione sono dirimenti i livelli occupazionali e produttivi nelle scelte di assegnazione di un bene comune come le onde hertziane.
Ma forse c’è dell’altro, altrimenti la furiosa ristrutturazione non si spiegherebbe. Non è che dietro il conclamato hub tecnologico di Milano Santa Giulia si cela un complessivo riassetto editoriale finalizzato a ridimensionare sostanzialmente le professioni giornalistiche? Magari in nome di nuovi mestieri trasversali? Si capirà presto, ma non è lecito il silenzio attorno ad una storia emblematica e anticipatrice. Il riassetto generale del e nel “Risiko” dei media in atto in un’Europa debole e declinante non deve risolversi in una asfissia del mondo del lavoro. Bene ha fatto la Cgil a dare la parola ad un rappresentante della televisione di Murdoch nella giornata di avvio della campagna sui referendum. Siamo nel vivo del capitalismo cognitivo, avvolto in una spirale finanziaria e accentratrice, in una pura tattica difensiva di fronte dell’arrivo degli “Over the top”, i temuti avversari nella lotta per l’egemonia nel cielo.
Il ministro Calenda ha promesso di seguire la situazione con attenzione. La delicatezza dei temi in ballo richiede, però, una presa di posizione dello stesso Presidente del consiglio Gentiloni, storicamente sensibile e buon conoscitore delle virtù e dei vizi di un sistema che in Italia è diventato un gioco di trust più che un motore di innovazione.