Abbiamo tutti accolto con favore la sentenza del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano (proc. pen. n. 71/15 R.G.) che il 7 luglio del 2016, «invocato il SS.mo Nome di Dio per essere illuminato sulle proprie decisioni», ha dichiarato il difetto di giurisdizione nei confronti di Gianluigi Nuzzi ed Emiliano Fittipaldi, liberandoli così dal peso di una vicenda giudiziaria che ha destato enorme clamore. I due giornalisti – com’è noto – erano stati chiamati a rispondere, innanzi l’autorità giudiziaria vaticana, del gravissimo reato di rivelazione di notizie e documenti concernenti gli interessi fondamentali della Santa Sede e dello Stato, a loro attribuito in concorso con Mons. Lucio Angel Vallejo Balda (Segretario generale della Prefettura per gli affari economici), con Francesca Immacolata Chaouqui, già membro della COSEA (Pontificia Commissione Referente di Studio della Struttura Economico-Amministrativa della Santa Sede) e con Nicola Maio, collaboratore di Vallejo Balda per le questioni riguardanti la COSEA. In particolare, secondo l’accusa, «Vallejo Balda, Chaouqui e Maio si procuravano tali notizie e documenti nell’ambito dei loro rispettivi incarichi nella Prefettura per gli affari economici e nella COSEA; mentre Fittipaldi e Nuzzi sollecitavano ed esercitavano pressioni, soprattutto su Vallejo Balda, per ottenere documenti e notizie riservati, che poi in parte hanno utilizzato per la redazione di due libri usciti in Italia nel novembre 2015»; vale a dire il saggio “Via Crucis” di Nuzzi, edito da Chiarelettere, e “Avarizia” di Fittipaldi, pubblicato da Feltrinelli.
La sentenza del Tribunale Vaticano, di cui alla vigilia di Natale sono state diffuse le motivazioni, si espone ad una critica severa in punto di diritto ma ciononostante, per una provvidenziale “eterogenesi dei fini”, merita comunque apprezzamento per aver evitato assai più profonde ingiustizie.
Il concorso dei giornalisti Nuzzi e Fittipaldi nell’illecita apprensione di documenti riservati della Santa Sede, per cui sono stati invece condannati Vallejo Balda e la Chaouqui, viene escluso dal giudice in forza di un singolare sofisma. Si legge nella sentenza in commento: «il Collegio ritiene che le risultanze fattuali di causa normativamente ponderate dimostrino l’insussistenza del concorso degli imputati dei quali si sta valutando la posizione processuale per mancanza della costituente soggettiva. Pertanto i fatti loro addebitati – accaparramento di notizie e documenti e successiva divulgazione specie tramite la pubblicazione di due libri –, non collegandosi agli accadimenti eventualmente compiuti nello Stato (cfr. art. 3 c.p.) e non costituendo, per se stessi, delitto (cfr. art. 4 c.p.), non radicano la giurisdizione dell’Autorità giudiziaria dello SCV». In altre parole, il giudice vaticano ritiene che fra la condotta illecita ascritta a mons. Vallejo Balda ed alla Chaoquoi (l’indebito trafugamento di documenti “segreti” della Santa Sede) e quella attribuita ai due giornalisti (la pubblicazione di una parte di quei documenti) non vi fosse alcun collegamento tale da prefigurare la competenza penale dell’autorità giudiziaria del Vaticano. Se una tale conclusione fosse il frutto di una indulgente valutazione oggettiva dei fatti (per cui, ad es., si ritiene che le notizie pubblicate da Nuzzi e Fittipaldi non siano state materialmente apprese da Balda), ben poco vi sarebbe da eccepire. Quel che lascia alquanto scettici è, però, l’inferenza esclusivamente soggettiva che ha orientato il convincimento del giudicante. Per il Tribunale vaticano è fuor di dubbio che i due giornalisti abbiano pubblicato notizie riservate ottenute, almeno in parte, da mons. Vallejo Balda. Si assume, tuttavia, che gli imputati non abbiano avuto consapevolezza della valenza illecita dell’azione posta in essere dal prelato, in concorso con la Chaoquoi. Val la pena di riportare integralmente il passaggio fondamentale della sentenza: «nel caso di specie la mancanza di una intenzionalità consapevolmente e volontariamente diretta alla perpetrazione plurisoggettiva del reato si evidenzia dai fatti così come questi emergono dagli atti di causa. Innanzitutto una tale carenza del concorso soggettivo si manifesta tramite le parole dell’imputato E. Fittipaldi le quali chiariscono che la condotta ascrittagli come criminosa sia stata da lui scientemente posta in essere in quanto corretto esercizio della sua attività professionale di giornalista e, per ciò, da lui ritenuta del tutto legittima; più specialmente infatti il medesimo imputato afferma: “Il mestiere di giornalista mi porta a concludere per la pubblicazione di documenti anche riservati, i documenti che le istituzioni non vogliono far conoscere. L’ho fatto e lo rifarei” (doc. 122 f u, p. 21) (…). Una spiegazione del suo operato non molto diversa viene sostenuta anche dall’imputato G. Nuzzi, che in proposito puntualizza: “Non potevo non fare il mio lavoro. Ho scelto di fare questo mestiere e l’obbligo del giornalista è quello di pubblicare le notizie di cui viene a conoscenza” (doc. 138 f u, p. 10). Lo stesso imputato in relazione ai fatti in controversia precisa ancora: “Avrei valutato la rilevanza pubblica, faccio il giornalista. Del resto… avendo scritto di privilegi [e] cattiva amministrazione ritengo con forza che [queste cose]… non rientrano negli interessi fondamentali di questo Stato” (ibidem, pp. 10-11)».
La tesi propugnata dal Tribunale vaticano in ordine alla “mancata consapevolezza” da parte di Nuzzi e Fittipaldi circa la provenienza delle loro fonti documentali, viene ad essere confutata dalle stesse risultanze processuali. Le dichiarazioni letteralmente riportate nella pronuncia de qua confermano e non smentiscono certo la piena coscienza, da parte dei due giornalisti, della matrice di quelle rivelazioni.
In realtà, i due giornalisti hanno entrambi rivendicato a gran voce il loro diritto-dovere di pubblicare notizie vere, da loro adeguatamente verificate, tutte di inoppugnabile rilevanza sociale ed interesse pubblico, nel rispetto di un superiore principio etico e normativo riconducibile all’esercizio della libertà di informazione. Si fa torto all’esperienza, all’intelligenza ed alla professionalità di Emiliano Fittipaldi e Gianluigi Nuzzi nel momento in cui si paventa, per quanto a fini assolutori, la loro incapacità a cogliere la problematicità anche di natura morale del loro lavoro. Paolo Mieli, nella deposizione resa all’udienza del 7 maggio 2016, non ha negato affatto la supremazia deontica e giuridica del giornalismo di inchiesta che, laddove correttamente esercitato, legittima ed impone l’apparente violazione delle norme penali: «Molti documenti risultano essere riservati per legge, ma in base a una convenzione non scritta sul comportamento deontologico dei giornalisti ciò non impedisce la pubblicazione» (doc. 157 f u, p. 5). Si doveva e si deve riconoscere, allora, la piena liceità della condotta contestata ai giornalisti Fittipaldi e Nuzzi non già in ragione di una loro inesistente ingenuità soggettiva ma, al contrario, per l’incontrovertibile «sussistenza, radicata e garantita dal diritto divino, della libertà di manifestazione del pensiero e della libertà di stampa nell’ordinamento giuridico vaticano», a cui si fa solo incidentale richiamo nella sentenza. Viene a cadere, in questa prospettiva, il requisito dell’antigiuridicità del fatto che, alieno da ogni improbabile disquisizione meramente psicologica, rileva oggettivamente anche ai sensi dell’art. 49 cod. pen. vat. quale “causa di esclusione della punibilità”: il fatto consapevolmente commesso dagli imputati (la pubblicazione di notizie riservate) non costituisce reato perché coincide con l’esercizio di un loro precipuo diritto e dovere, riconducibile all’alta valenza della professione giornalistica.
La fragilità del costrutto motivazionale trova conferma, del resto, nella stessa precisazione con cui il Tribunale Vaticano ha premura di aggiungere che, ai sensi del Motu Proprio dell’11 luglio 2013, la giurisdizione degli organi giudiziari dello SCV deve comunque essere esclusa, in caso di reati connessi alla sicurezza nazionale, con riguardo a soggetti che non rivestono la qualifica di “pubblici ufficiali” per la Santa Sede. Una simile considerazione risulta – da un lato – ultronea, a fronte della premessa estraneità soggettiva dei giornalisti rispetto al fatto delittuoso (se davvero non c’è compartecipazione delittuosa, la specificazione è sovrabbondante), e – dall’altro – risuona parimenti opinabile, alla stregua di una diversa e più estensiva interpretazione delle norme vigenti in materia di “concorso dell’extraneus nel reato proprio del pubblico ufficiale”.
La sentenza del Tribunale Vaticano, trincerandosi dietro un salvifico “difetto di giurisdizione”, evita sapientemente di entrare nel merito della questione legata al bilanciamento fra diritto di cronaca e tutela del segreto. È del tutto improprio sostenere – come hanno fatto taluni commentatori – che questa pronuncia equivalga ad una assoluzione degli imputati. Non è dunque una decisione che spicca per rigore logico e giuridico ma quanto meno non preclude, nell’anno della misericordia, uno spiraglio di buon senso. Ed è questo un gran bene.