L’omicidio Alpi-Hrovatin. La sentenza di Perugia ci impone di chiedere ancora verità e giustizia

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Tra le attività criminali che hanno radici in un sistema corrotto, una delle più insidiose è la soppressione della libera informazione e soprattutto del giornalismo di inchiesta che, secondo la Cassazione, è “l’espressione più alta e nobile dell’attività di informazione”. I traffici occulti, tra i quali si distinguono per entità e valore quelli dei rifiuti tossici, hanno bisogno, per potersi proteggere, del silenzio e della copertura oltre che di complicità diffuse con i vari centri di potere.
Perché un bidone di veleno possa arrivare da Torre Annunziata a Mogadiscio, occorre una ramificata collaborazione che possa arrivare ad eliminare eventuali ribelli.
I recenti sviluppi del caso Alpi-Hovratin hanno dimostrato però che anche questo tipo di organizzazione può essere portato allo scoperto se tutti fanno il loro dovere.

L’ultima sentenza della Corte di Perugia ha ribadito anzitutto che la precedente condanna di Hashi Omar Hassan a 26 anni di reclusione si fondò sulla deposizione resa dal teste somalo Ali Ahmed Rade detto Gelle alla Digos e alla Procura della Repubblica di Roma.La Corte ha quindi constatato che il Gelle aveva mentito sia quando disse all’Autorità Giudiziaria e alla Polizia italiana di aver visto Hashi sul luogo dell’omicidio, mentre egli era addirittura fuori Mogadiscio, sia quando riferì di avere avuto in seguito un colloquio con Hashi nel corso del quale costui avrebbe rivelato le modalità e le ragioni dell’attacco armato. Ed invece dopo il fatto tra Hashi e Gelle non vi fu alcun incontro. Ne è conseguito il proscioglimento di Hashi Omar Hassan, ma ciò non pone termine alla vicenda iniziatasi nel 1992. Infatti la Corte di Appello di Perugia ha anche accertato che la falsa ricostruzione degli avvenimenti recitata da Gelle davanti alla Corte di Roma, gli era stata suggerita da italiani, soffermandosi sui rapporti avuti da Gelle con l’ambasciatore italiano Cassini.

Si dovrà ora stabilire chi ha suggerito, al falso testimone Gelle utilizzato contro Hashi, la ricostruzione degli avvenimenti. Nella motivazione pur non prospettandosi tesi accusatorie, si formulano ripetute precise indicazioni su autorità italiane – l’ambasciatore Cassini e alti dirigenti del Ministero degli Interni – che hanno avuto rapporti con Gelle e che potrebbero essere state coinvolte nell’illecita manovra. Un “vivo sconcerto” è stato espresso nella motivazione della Corte di Perugia per il comportamento della Polizia italiana nei rapporti con il Gelle il quale, dopo avere reso le dichiarazioni accusatorie contro Hashi Omar Hassan, è stato a lungo ospitato a Roma a cura di strutture e agenti del Ministero degli Interni e si è poi reso irreperibile, nell’ambito di un’attività di depistaggio di ampia portata.

Cassini ha più volte deplorato il fatto che la Polizia italiana pur disponendo dei recapiti di Gelle all’estero, non abbia utilizzato tali informazioni che sono state invece rapidamente reperite ed utilizzate dai redattori di “Chi l’ha Visto?”, il cui servizio ha dato un decisivo impulso alle indagini, inducendo la Procura di Roma a reperire e interrogare in Gran Bretagna il 31.3.2016, per rogatoria, Ali Ahmed Rage detto Gelle.

Perseguendo questa pista si avrà ora modo di chiarire che ruolo sia stato svolto dalla Polizia italiana nella gestione del teste Gelle e le ragioni del suo intervento. In materia è comunque applicabile l’avocazione da parte della Procura Generale.

Il teste Cassini ha dichiarato di aver collaborato con funzionari italiani della Polizia, Di Stefano e Vulpiani. Egli ha altresì parlato dei rapporti tra la Polizia e il teste Gelle. Su tali rapporti la Procura di Roma dovrà indagare. Non sarebbe la prima volta che in questa vicenda si siano verificati dissensi fra gli inquirenti. Non devono dimenticarsi le vivaci proteste del Sost. Proc. della Repubblica Pititto per essere stato esonerato (il 16.6.1997) per asserite ragioni organizzative dalla delega per il caso Alpi.
Il magistrato fece presente anche al Consiglio Superiore della Magistratura che i motivi dell’addebito mossogli non erano veritieri e che se si voleva pervenire all’individuazione degli organizzatori dell’omicidio Alpi era necessario accertare le vere ragioni della di lui rimozione dalla delega per il processo Alpi. Il dott. Pititto inoltre si è doluto per essere stato esonerato dall’incarico tre giorni prima dell’arrivo a Roma di due testimoni somali da lui reperiti con la collaborazione della DIGOS di Udine.

Altri motivi di frizione si determinarono per le proteste del dott. Tarditi, sostituto Procuratore della Repubblica di Asti, il quale rilevò che notizie riservate reperite dall’Ufficio di Asti, anche mediante intercettazioni telefoniche, erano state portate a conoscenza delle parti di un processo in corso sul traffico illecito di rifiuti tossici fra l’Italia e la Somalia.
In quell’occasione il dott. Tarditi denunciò tra l’altro il reperimento di un microfono spia nell’ufficio dove avrebbero dovuto essere sentiti i testi.

Analoghe informazioni arrivarono a Roma da centri locali del SISMI e del SISDE nonché da numerosi uffici della DIGOS. Per raggiungere il risultato perseguito sarebbe stato sufficiente operare un semplice collegamento. Più di una volta gli agenti dei Servizi dichiararono di aver avuto da fonti attendibili precise notizie sull’omicidio e sui nomi dei suoi organizzatori. Questi pubblici ufficiali hanno rifiutato però di fare i nomi dei loro informatori avvalendosi dell’art. 203 c.p.p., per ragioni di segreto professionale. Dato, fra l’altro, il lungo tempo trascorso, gli agenti non avrebbero dovuto avvalersi del loro privilegio.
I silenzi e le riluttanze possono essere interpretati come frutto di una incomprensione per la portata dell’omicidio, che non fu certamente un comune reato, ma andò a colpire le istituzioni democratiche.


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