Centocinquant’anni: auguroni agli amici e colleghi della Stampa! È con vero piacere che mi trovo a riflettere su questo insolito giornale, emblema di una certa borghesia piemontese eppure in grado, nel corso dei decenni, di accogliere sulle proprie pagine i massimi esponenti di quella cultura azionista così minoritaria eppure così preziosa nel nostro Paese.
Un quotidiano laico, profondamente sabaudo, profondamente legato ai miti, ai riti e alle tradizioni di Torino, tanto globale ed europeista, per resilienza e spirito d’adattamento alle evoluzioni del Ventunesimo secolo, quanto capace di raccontare la vita e le evoluzioni di una città-fabbrica, scopertasi improvvisamente bella al termine dell’epopea fordista e in grado di reinventarsi, di riqualificarsi e di continuare a sentirsi una comunità solidale in cammino, al netto dei non pochi squilibri palesatisi negli ultimi vent’anni e delle eccessive e intollerabili disparità presenti fra i quartieri bene del centro e le aree impoverite della periferia urbana.
Una città, Torino, e un quotidiano, La Stampa, in cui il confronto fra capitalismo e operaismo, razza padrona e classi subalterne ha sempre avuto una propria nobiltà, diremmo quasi un’epica, teorizzata anche da quei quadri del PCI che nel capoluogo piemontese vissero in prima persona le battaglie sociali e sindacali degli anni in cui Mirafiori costituiva il cuore pulsante della produzione automobilistica italiana e in cui frequentare la cosiddetta “scuola operaia” costituiva un bagaglio culturale e politico imprescindibile per assumere ruoli dirigenziali a livello nazionale.
Non è un caso, infatti, se Gramsci, Togliatti e Longo abbiano avuto in comune un’importante esperienza torinese; non è un caso se nel quotidiano che oggi compie un secolo e mezzo di vita sia ancora pulsante lo spirito del Cavour e del D’Azeglio; non è un caso se quelle pagine, insieme alla casa editrice Einaudi, siano state il rifugio intellettuale di figure come Mila, Jemolo, Bobbio, Gorresio, Galante Garrone e altri illustri e autorevolissimi protagonisti di una scuola di pensiero sì minoritaria ma, al tempo stesso, capace di farsi ascoltare ovunque e di gettare un seme importante nel terreno, un tempo fertile, oggi assai meno, del confronto e della dialettica pubblica fra parti contrapposte.
Un pensiero liberale con venature socialiste, diremmo quasi mazziniano, intriso di quel repubblicanesimo che vede nell’Italia una missione storica e civile e nell’Europa un approdo imprescindibile: un’ideologia intensa, fervida, affascinante, da coltivare con entusiasmo e doveroso spirito critico, da innaffiare come una pianta meritevole di crescere e da correggere negli aspetti che ne limitano le possibilità di farsi apprezzare da ampi strati della popolazione.
La Stampa, dunque, è forse il primo e unico giornale “glocale” del nostro Paese, in grado di analizzare ogni singola vicenda in un contesto più ampio, di conferire a questo tempo senza politica, o, per meglio dire, con una politica scadente e a tratti indegna di essere commentata, una razionalità e una direzione di marcia, una rotta solida e sicura, un punto di vista sanamente scettico ma mai nichilista.
Un giornale, La Stampa, che si è sempre sforzato di costruire ponti là dove altri erigevano voluttuosamente muri e steccati, il cui sventurato simbolo, come ricordato anche da Ezio Mauro su Repubblica, è stato proprio Carlo Casalegno, il vice-direttore che cadde sotto i colpi delle Brigate Rosse nella triste stagione del terrorismo e delle stragi di Stato, in una Torino che fu uno dei centri nevralgici di questa barbarie, la cui falsa rivoluzione andò, purtroppo, a ferire o ad assassinare alcune delle più valide espressioni del riformismo italiano, ossia quella classe dirigente di notevole levatura morale che, al pari di Casalegno, non intendeva rinunciare agli ideali della gioventù e ai valori imprescindibili della Resistenza, primo fra tutti il rispetto per il prossimo e per le sue idee, per le istituzioni e per la loro funzione sociale di raccordo democratico.
Casalegno criticava apertamente i brigatisti, in quanto li aveva visti all’opera, da vicino, ad esempio quando avevano assassinato, pochi mesi prima di lui, Fulvio Croce, presidente dell’Ordine degli avvocati di Torino: un galantuomo che aveva difeso i partigiani nella Torino del ’44 e la cui unica colpa era stata quella di aver accettato la difesa di soggetti che ritenevano i processi a loro carico soprusi dello Stato borghese, definendosi prigionieri politici quando, in realtà, non erano altro che squallidi assassini reazionari, cultori di un’idea malata della democrazia o, per meglio dire, della sua esatta negazione. Li aveva visti in azione e non aveva taciuto, considerando la denuncia e la battaglia, sociale e civile, una ragione di vita e un dovere ineludibile per ciascun giornalista. La Stampa era la sua vita, il suo campo di battaglia e oggi, quarant’anni dopo, quel giornale compie un secolo e mezzo e ci regala un numero da collezione davvero straordinario, sul quale si può leggere un dibattito di idee che raramente trova spazio sui giornali italiani, ponendosi, ancora una volta, come esempio e tramite di una rivoluzione gentile e costruttiva, nella stagione del vuoto, dello scontro privo di prospettive e del pensiero unico dominante che, per eterogenesi dei fini, genera confusione, caos e disincanto diffuso.
Un quotidiano utile, un esempio di buon giornalismo capace di rinnovarsi costantemente con impegno e dedizione.
Buon compleanno La Stampa e non perdiamoci di vista!