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“La democrazia forse arriva, forse no, mentre i massacri e le distruzioni avvengono sempre”

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Comincia da Aleppo, da dove è appena tornato, il giornalista Fulvio Scaglione, editorialista di Famiglia Cristiana, corrispondente da Mosca, più volte inviato in teatri di guerra, per raccontare quello che sta accadendo a livello planetario. Intervenuto il 6 febbraio a Vicenza, nei locali della Cooperativa sociale Insieme, ospite della onlus “Alternativa Nord/Sud per il XXI secolo”, ha spaziato dall’America al Medio Oriente, passando per la Russia, e senza dimenticare la Cina, l’attore più subdolo dello scacchiere internazionale, perché agisce “dietro le quinte”, ma proprio per questo da non sottovalutare.

Analizzando Aleppo, ci si accorge che quanto accaduto in Siria non rappresenta nulla di diverso da quanto accade in varie parti del mondo almeno da quarant’anni, di come il terrorismo venga “combattuto” allo stesso modo, e di come ad ingarbugliare il tutto ci si metta l’intreccio fra le due grandi globalizzazioni, quella economico-finanziaria e quella del terrorismo islamico. La seconda non esisterebbe senza la prima. E la prima ha bisogno della seconda per distogliere gli occhi del mondo dal problema di una crisi senza via d’uscita e, insieme, per dare un po’ di fiato all’economia, attraverso l’industria bellica. «Le immagini che ho visto ad Aleppo le ho viste anche in Afghanistan, a Gaza, in Iraq e sono convinto che se andassi in Libia le vedrei anche lì – ha detto Scaglione -. C’è una costante. Quando sentiamo parlare dei bei progetti di esportazione della democrazia, dobbiamo tenere presente che la democrazia forse arriva, forse no, mentre i massacri e le distruzioni avvengono sempre. La vittoria finale dell’esercito regolare ci dice che nel prossimo futuro – anche se non sappiamo con quali forze, con quali confini o se sarà un Paese satellite della Russia -, una Siria assadiana continuerà ad esistere. Tutto questo ci dice che per la prima volta dal 1989 un progetto di esportazione della democrazia è fallito. Assad non ha fatto la fine di Milosevic, non ha fatto la fine di Saddam Hussein, non ha fatto la fine di Gheddafi, è ancora lì. Dico dal 1989, perché la teoria dell’esportazione della democrazia non è una mera dichiarazione di intenti, ma una strategia politica ben precisa, che fu elaborata dal presidente americano George Bush allo scopo di occupare politicamente – e non solo -, gli spazi che il tradizionale nemico sovietico, ormai agonizzante, si apprestava a liberare. Ed è un’operazione che replica pari pari quella che nel 1916 fecero Francia e Gran Bretagna ai danni dell’Impero Ottomano. Le due “Americhe di allora” si spartirono i territori di un Impero in declino».

Se l’America si ponesse in osservazione, di che cosa si accorgerebbe? «Del fatto che se è vero che nel mondo essa resta la sola superpotenza, è altrettanto vero che ci sono paesi che hanno una capacità di ostacolo tale che anche l’unica superpotenza può trovarsi in crisi. Nell’area mediorientale si sono ricomposti i rapporti tra Russia, Turchia e Iran. Ma il vero “attore interessante” è quello che si fa notare di meno: la Cina, che è partner politico e commerciale della Russia, ma è anche uno dei principali interlocutori economici e politici della Turchia, ed è il primo interlocutore economico e politico dell’Iran. Si sta formando un’alleanza inedita, il cui elemento coagulante è il comune interesse ad avere un rapporto costruttivo con la Cina».

Scappa un sorriso a Scaglione nel ricordare che Trump ha detto che il nemico maggiore è l’Isis. «Ci hanno raccontato che da due anni e mezzo una coalizione di 67 paesi fa sforzi pazzeschi per eliminarlo, direi che è una grandissima balla, alla quale non può credere nessuno. Una coalizione più ampia di quella che in poche settimane ha fatto fuori Milosevic e che in pochi giorni ha fatto fuori Saddam Hussein, in quasi tre anni non riesce a far fuori l’Isis?»

Perché non lo si elimina? «Perché non si vuole farlo. Lo scorso settembre sono stati 15 anni dall’abbattimento delle Torri Gemelle. Quel giorno morirono circa 3.000 persone, erano originarie di 90 Paesi diversi; il 16 per cento di questi morti non era americano. Quella fu la prima tragedia terroristica del mondo globalizzato. Nove giorni dopo, George Bush junior dichiarò guerra al terrorismo, alla quale tutti i paesi democratici aderirono e anche moltissimi paesi non democratici si dichiararono d’accordo. Quindici anni dopo quella dichiarazione, se una guerra al terrorismo c’è stata, non solo non l’abbiamo vinta, ma l’abbiamo clamorosamente persa. Dal 2000 al 2016, il numero di morti per terrorismo nel mondo è aumentato di nove volte; dal 2013 al 2014, i paesi che hanno subito almeno 500 morti per atti di terrorismo, sono passati da 5 a 11; dal 2013 al 2014, il numero degli attentati kamikaze è cresciuto del 18%. Nel 2011, i morti erano 8.000; nel 2013, 18mila; nel 2014, 33mila. Nel solo 2015, l’Isis ha ammazzato più di seimila persone in atti di terrorismo e altre 25mila al fronte. Com’è possibile che la parte di mondo, la nostra, militarmente più forte, tecnicamente più avanzata, economicamente più sviluppata, finanziariamente più dinamica, culturalmente più attrezzata, non riesca ad aver ragione di un fenomeno che viene prodotto in una parte di mondo che avrà pure tanto denaro, ma è meno attrezzata? Com’è possibile che i più forti le prendano dai più deboli? La mia spiegazione personale è che non c’è mai stata una vera lotta al terrorismo e che non ci può essere, perché noi siamo i migliori amici dei migliori amici dei terroristi. Perché tutto quello che di serio sappiamo sul terrorismo islamico ci dice che la sua patria, il luogo dove ci sono fomentatori e finanziatori, è il Golfo Persico con le sue petrol-monarchie».


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