La prima domanda che mi ha colpito in questo lavoro é una domanda semplice semplice. “Voi al mare ci andate?” Chiedono i protagonisti a “i migrati” che sono andati a cercare nei paesi dell’Appennino. È una domanda di quelle che servono a conoscersi, a capirsi, a vedere se ci sono punti in comune e a decidere se fare amicizia. Sostanzialmente è una domanda che mette chi la fa in posizione di ascolto, una abitudine sempre più rara quando si parla di migrazioni. È questa la forza de “I migrati”, documentario girato dalla comunità XXIV luglio handicappati e non, dove i volontari hanno curato regia e riprese e gli ospiti sono i giornalisti, hanno fatto le domande e hanno cercato di capire.
Non è banale tutto questo. Le parole sono importanti. Pochi giorni fa un tribunale ha deciso per la prima volta che la parola clandestino usata verso chi scappa da guerre o persecuzione è denigratoria. Non è clandestino chi sfugge alla morte e chiede protezione. Dovrebbe essere questione di semplice buonsenso, invece ha dovuto decidere un tribunale. È il segno che siamo attorcigliati e contorti intorno ad una incapacità di dialogo e di disponibilità alla comprensione. I migrati ci indica una strada, offre una opportunità per uscire da questo loop devastante.
Mi racconti una storia? È la domanda che fanno tutti i bambini.
Mi racconti la tua storia? è la domanda che dovrebbero fare tutti i gli adulti e che dovremmo imparare a fare noi giornalisti. È un esercizio di ascolto senza il quale non è possibile capire e quindi non è possibile raccontare.
Come si fa a raccontare quello che non si è capito?
La risposta ce la danno sempre loro quando dicono: “Abbiamo imparato a fare i giornalisti. Abbiamo imparato a fare molte domande. Bisogna continuare a fare domande.” Insomma, grazie Benito, Barbara, Gianluca e Giovanni ci aiutano a trovare la posizione, comoda, di ascolto.
Credo sia un buon esercizio. Va in onda su Raidue, Tg2 Dossier sabato alle 23.50 e domenica alle 19.20 su Tv 2000.
È bello. È poetico. È da vedere.
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