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Gratteri: “Garantire la giustizia è un dovere”

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Donatella D’Acapito

Necessità di giustizia, senza distinzioni geografiche che facciano di una provincia un luogo dove questa esigenza sia più forte di altre. Giustizia come diritto di ognuno e come dovere per le Istituzioni e per chi le rappresenta. Eppure si può scoprire che in alcuni luoghi mettere in pratica questi principi è più difficile che in altri. Che ci sono posti in cui giustizia deve ancor di più significare presenza certa e credibilità dello Stato.
A Nicola Gratteri, da sempre in prima linea nella lotta alla ‘ndrangheta e oggi capo della Procura di Catanzaro, tre anni fa il Governo aveva affidato il compito di presiedere e coordinare la “Commissione per l’elaborazione di proposte normative in tema di lotta, anche patrimoniale, alla criminalità”. Di quella Commissione facevano parte 15 esperti fra magistrati, avvocati e docenti universitari di diritto penale che hanno lavorato gratuitamente. Lavoro che ha portato ad un documento di 266 pagine che propone la modifica di 150 articoli, tra codice penale, codice di procedura penale e ordinamento giudiziario, per rendere più efficace la lotta alla criminalità. Proposte ora all’esame del Parlamento.
Proprio con il Procuratore Gratteri, allora, abbiamo voluto parlare di quanto la lotta al crimine organizzato e il dare risposte alla domanda di giustizia possano incontrare ostacoli nelle carenze di organico, nel mancato aggiornamento del sistema giudiziario o nei limiti dettati da regole che forse andrebbero riviste.

D. Dottor Gratteri, quanto condizioni come il vuoto di organico nei tribunali o il rischio di prescrizione possono intralciare il lavoro di una procura che, alla fine, si trova a gestire molte inchieste?
R. Quello della carenza di organico, così come quello della prescrizione troppo rapida di alcuni reati, è un problema serio per il lavoro di una procura. Sono a Catanzaro dal maggio 2016 e so che posso contare su magistrati di prim’ordine. Ma il problema per quel che riguarda i tribunali e le corti d’appello è rappresentato non solo dalla scarsità dell’organico, ma anche dalla farraginosità del sistema giudiziario. Molti processi delicati, importanti, magari che riguardano la pubblica amministrazione, si prescrivono. E da noi pubblica amministrazione vuol dire anche ‘ndrangheta o l’anticamera della ‘ndrangheta. Quindi, sul piano non solo della giustizia ma del messaggio che mandiamo e della credibilità che dovremmo avere, vedere che un processo “viene prescritto” corrisponde a dare un messaggio molto brutto.
La gente si avvicina a noi, crede in noi, solo se vede un sistema giudiziario che funziona. Ed è per questo che non possiamo permetterci certe cose.

D. Come si può far fronte a questa situazione?
R. A Catanzaro, ad esempio, il Ministero ha aumentato la pianta organica di sette unità e al tribunale di dieci unità. I magistrati arriveranno a settembre 2017: ci stiamo quindi preparando. Resta la difficoltà sulla pianta organica degli impiegati, ma spero sia solo una questione di tempo.
E restando ancora al distretto di Corte d’Appello di Catanzaro devo dire che un problema serio sono le periferie, i tribunali nelle province del distretto. I processi che come Direzione Distrettuale Antimafia stiamo istruendo sono processi che poi dovranno essere celebrati a Vibo, a Crotone, a Castrovillari, a Cosenza, a Lamezia Terme e non sempre ci sono i magistrati. Adesso a Vibo si sta celebrando un processo importante e abbiamo poi visto in udienza cosa è accaduto (il processo “Black Money” al clan dei Mancuso durante il quale sono state pronunciate pesanti minacce alla Pm Marisa Manzini, ndr): ci sono colleghe giovani e bravissime, ma si tratta di un collegio che non tratta sistematicamente processi contro la mafia per i quali è necessaria una particolare esperienza. Allora o si mette in condizioni i tribunali ordinari di poter affrontare l’impatto di un processo dove sono coinvolti decine di mafiosi o presunti tali, o varrebbe la pena di modificare le norme e decidere che alcuni processi si celebrano nel Tribunale sede del distretto della Corte d’Appello.

D. È quindi anche un problema di competenze, di formazione?
R. Per capire i fatti di ‘ndrangheta ci vogliono almeno 4-5 anni di lavoro intenso e quotidiano. Quando si arriva a questo punto, capita ci sia chi comincia a pensare di andare a lavorare in un posto più comodo, o magari di avvicinarsi a casa, perché questi sono impegni che chiedono anche sacrifici a livello personale.
Per essere preparati, per affrontare un processo di mafia come pubblico ministero, ci vogliono all’incirca dieci anni. Poi, quando si arriva ad avere una conoscenza della materia, scatta la norma che dice che non si può fare Dda per più di dieci anni, perché altrimenti il rischio è quello di accumulare troppo potere. Ma dopo quel periodo di tempo, lo Stato si trova a disporre di uomini specializzati, preparatissimi, “macchine da guerra”, direi. Uomini che, se spostati in un’altra corte d’Appello, saranno sì ottimi magistrati, ma dovranno spendere anni di lavoro a conoscere i meccanismi della ‘ndrangheta locale, perché la ‘ndrangheta della provincia di Reggio Calabria o di Catanzaro è diversa da quella dell’Emilia Romagna, del Piemonte o della Lombardia.
Insomma, penso che per il magistrato che abusa del proprio potere ci sono le sanzioni disciplinari. Bisogna preoccuparsi di chi non lavora o non è idoneo alla funzione, non del tempo di permanenza. Se il magistrato riesce a far sequestrare tonnellate di cocaina o milioni di euro di proventi del traffico di droga, allora dovrebbe rimanere dov’è.
Fatte queste premesse, viene da sé che l’emergenza sul piano della formazione rischi di diventare continua: non mancano i ragazzi molto preparati, ma poi ci sono la procedura, le circolari, i meccanismi.

D. Torniamo al discorso sui troppi processi chiusi per la prescrizione dei reati…
R. Lavorare con questa spada di Damocle sulla testa si trasforma in un vivere con l’affanno. La madre di tutte le prescrizioni nel processo ordinario è il rinnovo degli atti dell’istruttoria dibattimentale ogni volta che si cambia collegio. Ad esempio, nell’articolato di legge che ho scritto con la mia Commissione, abbiamo previsto per il testimone la videoregistrazione con una videocamera ad alta definizione in grado di cogliere ogni cambiamento di atteggiamento del teste rispetto alle domande che gli vengono poste. Il magistrato che prende il posto del collega trasferito può andare a riprendersi la videoregistrazione del teste e non c’è bisogno di sentire, come può capitare, i 30-40 testimoni che –ad esempio- nel frattempo potrebbero essere stati trasferiti al nord con tutto l’esborso di denaro che questo comporta per lo Stato. Utilizzando le videoregistrazioni il processo ricomincerebbe da dove si è fermato e non da zero.
I reati contro la Pubblica Amministrazione, spesso, si prescrivono per questo motivo ed è già tanto se arrivano in appello.

D. Se dovesse indicare il problema dei problemi, cosa indicherebbe per cambiare marcia?
R. Se penso al dibattimento, che è la parte più complessa, penso all’informatizzazione. Applicare l’informatizzazione al processo penale, permetterebbe non solo di abbattere i tempi, ma anche di ridurre i costi del processo fino al 60%.

D. Ma perché nel 2017 siamo ancora a questo?
R. Andando in giro, mi accorgo che spesso ci sono persone che hanno grandi responsabilità ma non le competenze adatte. Persone che non dispongono di informazioni e conoscenze per affrontare questioni complesse come quelle che tirano in ballo l’uso di tecnologie moderne per rendere più veloce ed efficiente la macchina della giustizia . Ci sono dei Capi Ufficio – e parliamo di persone intelligenti e preparate- che hanno la responsabilità di distribuire delle somme per l’informatica che rientrano nei programmi Pon sicurezza e però non sanno districarsi fra le tecnologie ormai alla portata di tutti. Ecco, bisogna avere il coraggio di mettere persone con le necessarie competenze nel posto giusto. Già questo migliorerebbe di molto la situazione, ne sono certo.

Da liberainformazione


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