La Mehari verde di Giancarlo Siani, giornalista ucciso a 26 anni dalla camorra, è il simbolo del giornalismo pulito, che risponde al bisogno di sapere. Il “Viaggio legale” la sta portando in giro per l’Italia e la mattina del 19 gennaio 2017 è lì, davanti al palazzo del tribunale di Reggio Emilia, a pochi metri di distanza dalla grande aula del processo dove alle 9,30 il campanello annuncia l’inizio di un’altra udienza di Aemilia: l’ennesima. Sembra voler ascoltare, mentre tutti la guardano e la fotografano, cosa diranno i giudici rispondendo alla istanza presentata due giorni prima da Sergio Bolognino a nome degli imputati costretti alla carcerazione preventiva. Una richiesta precisa e argomentata: processo a porte chiuse, fuori i giornalisti. “Siamo stanchi – dicono in sostanza i detenuti – di leggere e ascoltare articoli e commenti che raccontano il processo in modo unilaterale, sposando le tesi dell’accusa senza mai dar voce alla difesa. Così si influenzano in modo scorretto l’opinione pubblica e soprattutto i testimoni”.
Quando la Mehari sente il giudice Francesco Maria Caruso dichiarare “Inammissibile per carenza dei presupposti giuridici” la richiesta, tira un sospiro di sollievo perché sarebbe stato per lei assai imbarazzante posare per i fotografi in un piazzale reso sordo e muto, privato del diritto all’informazione e della libertà di parola e d’opinione. Il sospiro di sollievo diventa poi un marcato sorriso, come solo su certe auto del film Cars si era visto in precedenza, quando il Presidente spiega le ragioni di merito. Che sono complesse ma dalle quali emergono tre concetti forti. Tre capisaldi che rendono felice la Mehari.
Il primo è la “Pietra angolare della Costituzione”, come definisce Caruso l’art. 21 della nostra Carta Fondamentale, che sancisce il diritto di libera manifestazione del pensiero attraverso “la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Aggiungendo che “la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”.
Il secondo è la difesa, orgogliosa, delle garanzie di imparzialità e correttezza offerte a tutti i protagonisti della vicenda giudiziaria dall’aula del tribunale e dal contraddittorio tra accusa e difesa. Se qualcuno adombra l’ipotesi che gli articoli di stampa possano condizionare i testimoni e addirittura i giudici, dice in sostanza, sappia che quest’aula è in grado di valutare l’attendibilità dei primi e di garantire l’imparzialità dei secondi. Anche qualora i testimoni venissero influenzati o condizionati da elementi ben più efficaci e preoccupanti di un articolo di giornale. E il pensieri corre inevitabilmente alle reticenze, ai “non ricordo”, ai silenzi uditi in aula in questi mesi, con tanti testimoni intimiditi e visibilmente spaventati dalle possibili ritorsioni per le proprie parole.
La terza ragione forte del “No” pronunciato dal Collegio richiama il valore democratico e la trasparenza del dibattimento pubblico. E’ la migliore garanzia per tutti, a partire dai cittadini che hanno diritto di sapere e dagli stessi imputati che, la storia e le cronache dal mondo purtroppo spesso ce lo insegnano, rischiano di patire ingiustizie processuali dietro le porte chiuse dei tribunali.
La Mehari è felice, come lo era tanto tempo prima, quando a guidarla era un giovane giornalista “abusivo” che a Torre Annunziata non si accontentava di raccontare le cose che accadevano; voleva anche capire “perché” quelle cose accadessero. E magari per colpa di chi. Quei “chi” che al giovane giornalista non l’hanno poi perdonata, la sua curiosità, e gli hanno sparato otto colpi in testa.
Fare al processo Aemilia i “giornalisti giornalisti”, come era Giancarlo Siani, non è semplice né facile. Fino ad oggi dopo cinque anni di indagini e uno di udienze sono state scritte duecentomila pagine. Se fossero fogli e non file, innalzerebbero una torre di oltre venti metri alla quale ogni mese si aggiunge un nuovo piano.
Leggere e raccontare quei fogli è un dovere ma è solo metà dell’opera, perché la verità giudiziaria non basta. C’è necessita di discutere e mettere a fuoco anche una verità storica che va oltre i linguaggi e le regole del processo, che ad esso scorre nel tempo parallela e che attiene ai comportamenti della nostra comunità in tutte le sue articolazioni. C’è la necessità di confrontare l’idea che abbiamo del rapporto tra legalità e illegalità, che significato diamo a queste parole, quali sono le cattive pratiche e i punti critici che portano alla inevitabile sovrapposizione e consentono alle mafie di piantare radici stabili anche in regioni tradizionalmente sane come l’Emilia Romagna e la Lombardia.
L’istanza dell’imputato Sergio Bolognino non era né improvvisata né casuale nella scelta dei tempi. In subordine chiedeva ai giudici di portare in aula ad ogni nuova udienza gli articoli di giornale scritti il giorno prima e valutarne l’attendibilità e i contenuti. Ogni mattina un processo al giornalismo, che verrebbe prima e farebbe più rumore del processo alla ‘ndrangheta.
Una provocazione? Certo, ma non solo. Perché il processo alle intenzioni dei giornalisti è merce che va di moda in Italia e condizionarne il lavoro è interesse diffuso. Alla loro maniera i presunti capi della ‘ndrangheta emiliana chiedono ciò che chiedono molti editori, o molti uomini politici e rappresentanti di istituzioni, per non dire di certi presidenti degli Stati Uniti…: controllare a priori ciò che scrivono i giornalisti e censurarli o punirli se non si comportano bene.
Per Giovanni Tizian che raccontava gli affari sporchi del gioco d’azzardo la punizione del boss Nicola Femia doveva essere “un colpo in bocca”. Per Gabriele Franzini la cura prevista da Gian Luigi Sarcone era: “Questo lo sistemiamo noi”. A Marco Ferri, cameraman che riprendeva dall’esterno l’azienda di Francesco Grande Aracri a Brescello, il boss ha brandito una spranga di ferro incurante delle riprese. A Sabrina Pignedoli le pressioni e le intimidazioni perché non scrivesse arrivavano non da un picciotto ma da un poliziotto: l’autista del Questore.
Sono i casi più eclatanti in Emilia Romagna, doverosamente al centro dei processi di Bologna e Reggio Emilia. A questi giornalisti deve andare la solidarietà e la protezione della categoria, ma la battaglia per la legalità e per la libera informazione è più grande e richiede uno sforzo maggiore: la tutela dei diritti di comunità in genere e dei diritti del lavoro giornalistico nello specifico. Aemilia ci insegna purtroppo, attraverso le testimonianze ascoltate alle udienze, che quando si è soli è più facile cedere ai ricatti, alle intimidazioni e alle minacce delle mafie. Vale per i poveracci indebitati, per i liberi professionisti, per imprenditori più o meno grandi, per politici in cerca di strade rapide verso il successo. Vale per i cittadini in genere. E vale anche per i giornalisti. Non lasciamoli soli.
*Paolo Bonacini – giornalista, curatore del blog “L’Emilia oltre Aemilia” su www.cgilreggioemilia.it