Inutile per fermare l’immigrazione clandestina peraltro l’anno scorso assai ridotta, il muro che Trump vorrebbe insormontabile al confine con il Messico è tuttavia un ostacolo in più per l’intera America Latina. Appesantisce economie e politiche in una fase già peggio che complicata dalla caduta dei prezzi internazionali delle materie prime. Il muro simboleggia lo spirito con cui il nuovo presidente degli Stati Uniti guarda al suo sud.
Verso il quale ad oltre un secolo di distanza torna a brandire lo stesso grosso bastone di Theodore Roosevelt e l’ancor più lontana dottrina di James Monroe (1823), detta strumentalmente isolazionista, in quanto di fatto riservava agli Stati Uniti il massimo diritto d’intervento su entrambi gli emisferi del continente americano (preoccupava e molto, allora, la rivoluzione messicana di Zapata, Villa e Madero), assolutamente interdetto invece all’Europa.
In quel tempo la globalizzazione restava fuori d’ogni orizzonte. L’America era da punta a punta terra d’ immigrazione, ma dai nuovi venuti veniva pretesa un’integrazione assoluta, la rinuncia a ogni radice. Non si può essere cittadini di due paesi, proclamava insistentemente Theodore Roosevelt. Il cui energico afflato nazional-riformista, così come in precedenza il cosiddetto isolazionismo protezionista di Monroe, intervenivano su congiunture economiche internazionali deboli e in trasformazione.
Sostenuti entrambi da un populismo con forti tratti retrogradi, non così dissimile da questo messo insieme da Donald Trump. Che il nuovo presidente non mostri il raffinato eloquio del brillante allievo di Harvard che fu T. Roosevelt, né -tanto meno- l’acutezza giuridica di Monroe è solo un segno dei tempi. Comunque America first!
Gli effetti ora sono dirompenti. Perché nel vocabolario storico dei suoi interessi espansionisti così come in tanto immaginario collettivo, l’America si risolverebbe interamente dentro i confini politici dei 48 stati a stelle e strisce (mainland). Fingendo d’ignorare un meridione che si estende fino alla Patagonia e alla Terra del Fuoco, attraverso altri 20 paesi con cento milioni di abitanti più degli Stati Uniti e del Canada sommati.
Non si tratta di rimemorare il vecchio universalismo di tanti padri fondatori a cominciare da Thomas Jefferson, qualche riverbero del quale abbiamo colto ancora recentemente sebbene solo a parole in Barack Obama (nei fatti la sua amministrazione ha deportato 2 milioni e ottocentomila persone tra il 2008 e il 2016, più di qualsiasi altra di quelle che l’hanno preceduta: dato della Croce Rossa Internazionale). Da Città del Messico a Brasilia, Buenos Aires, Santiago si accontenterebbero di maggiore equità negli scambi commerciali e finanziari.
Per gli argentini la delusione è cocente. Assunta la presidenza, un anno fa, Maurizio Macri ha subito indebitato pesantemente il paese per pagare i fondi speculativi e i residui creditori del default del 2001, che impedivano all’Argentina di rientrare a pieno titolo nel mercato internazionale dei capitali. Puntava a ricevere in cambio credibilità e investimenti. Che avrebbero dovuto compensare anche la sua caduta di consensi all’interno, per i drastici provvedimenti destinati a ridurre il costo del lavoro.
Se il piano aveva qualche possibilità di successo (l’esperienza fallimentare dei governi Menem negli anni Novanta avrebbe consigliato però la massima cautela), l’autarchia proclamata da Trump gliel’ha bruciata sul nascere. Il dollaro ha accelerato la sua rivalutazione, rendendo gli Stati Uniti ben più attraenti dei mercati sudamericani per i grandi investitori, gli interessi debitori hanno ripreso a salire e con questi l’onere per l’erario argentino.
L’inflazione non si ferma e la disoccupazione aumenta. Le esportazioni non bastano a compensare e gli Stati Uniti invece di aprire le porte dei loro ambiti mercati di consumo tendono a chiuderle. “Il problema è molto più ampio e profondo, obbliga il governo argentino a riformulare la sua politica estera, se vuole aggiornarla ad un mondo in cui le vecchie certezze sono cadute”, scrive su La Nación il columnist Morales Solá, tra i primi e più convinti sostenitori di Macri.
Sul punto di spingere il Mercosur nel fondo oscuro di qualche cassetto della sua burocrazia, il presidente argentino s’affretta adesso a tentare di rianimare il patto commerciale più importante del sub-continente insieme al suo omologo brasiliano, Michel Temer. Il Brasile, ottava o nona economia del mondo (in disputa con l’Italia), è il primo socio dell’Argentina. E anche i paesi del versante Pacifico, Cile, Perù e Colombia, da sempre più legati agli scambi commerciali con gli Stati Uniti, cominciano a rivolgere nuova attenzione ai rapporti latinoamericani. E l’intera America Latina rivolge ora un’attenzione nuova all’Europa.