La “febbre” del 40% miete vittime nel centrosinistra, nel centrodestra e nei cinquestelle. Divampa il “contagio”. Matteo Renzi quasi tre anni fa si è posto l’ambizioso traguardo del 40% dei voti nelle elezioni politiche e ora, con l’avvicinarsi del rinnovo delle Camere (a scadenza anticipata o regolare nel 2018), è cominciata la “corsa”. Alla gara, oltre al segretario del Pd, tutti vogliono partecipare. È una sfida difficile tra tante squadre diverse, molte volte divise al loro interno.
Una volta per Renzi non era un miraggio ma un traguardo a portata di mano. Riteneva che ci fossero le premesse per spuntarla. Il Pd nelle elezioni europee del maggio 2014 aveva ottenuto un trionfale 40,82%. Aveva seminato il M5S al 21,16% e Forza Italia al 16,83%; e così tutti gli altri avversari impigliati in livelli ancora più bassi. In questo clima Renzi, allora presidente del Consiglio e segretario del Pd, impostò l’Italicum, la nuova legge elettorale che, tra l’altro, assegnava un premio di maggioranza al partito che avesse incassato almeno il 40% dei voti.
Però poi tutto è cambiato rapidamente: sono arrivate le disfatte. Renzi prima ha perso colpi nelle elezioni regionali del 2015, quindi è stato sconfitto nelle comunali del 2016 e infine è arrivata la batosta nel referendum del 4 dicembre scorso sulla riforma costituzionale del governo: respinta con il 59,11% di “no” contro il 40,89% di “sì”. A gennaio la Corte costituzionale ha bocciato alcuni punti dell’Italicum, ma non il premio di maggioranza di seggi al partito più forte, con almeno il 40% dei consensi.
Così non svanisce, resta, anzi si rafforza il mito del 40%. Renzi, con l’obiettivo del voto anticipato in tempi rapidi, ne ha parlato più volte dopo la sconfitta al referendum col 40% di sì: «Ripartiamo da qui». Ha indicato degli esempi storici: «Il Pd ha preso il 40,8% alle Europee, miglior risultato di un partito politico in Italia dalla Dc del 1959. Sono convinto che se il 4 dicembre si fosse votato per i partiti, saremmo risultati nettamente primi». È scoppiata una rissa. La tesi è stata contestata sia dalle minoranze del Pd sul piede di guerra contro Renzi sia dalle opposizioni dei cinquestelle, del centrodestra, di Sinistra italiana. Tuttavia l’ex presidente del Consiglio insiste, nonostante i venti di scissione che soffiano nelle sinistre del partito.
Il 40%, però, è una cifra che affascina un po’ tutti. Giuliano Pisapia, impegnato per dare vita al Campo Progressista, ritiene che sia un traguardo possibile per un centrosinistra rinnovato ed unito. L’ex sindaco di Milano ha lanciato un preciso messaggio a Renzi invitandolo a mettere da parte la linea dell’autosufficienza: «Penso che l’alleanza tra il Pd, noi, le liste civiche, gli ecologisti possa arrivare al 40%».
Il 40% è un numero che ipnotizza. Beppe Grillo ha chiesto di andare a votare subito, applicando il Legalicum, come ha battezzato il testo dell’Italicum rivisto dalla Consulta. Vede la vittoria e Palazzo Chigi a portata di mano: «La Corte costituzionale ha tolto il ballottaggio, ma ha lasciato il premio di maggioranza alla lista al 40%. Questo è il nostro obiettivo per poter governare». Tuttavia l’ascesa trionfale del M5S, dopo tante vittorie, è ostacolata dal caos nel quale naviga la giunta comunale di Roma, la metropoli guidata dalla sindaca grillina Virginia Raggi. È un caos pagato con la discesa dei cinquestelle nei sondaggi elettorali.
Anche Giorgia Meloni, alleata della Lega Nord di Matteo Salvini, ha chiesto immediate elezioni per portare un centrodestra unito al traguardo del 40%. La presidente di Fratelli d’Italia è fiduciosa sulla riunificazione del centrodestra:«Chiederemo agli italiani di darci il 40% per ottenere la maggioranza in Parlamento».
Le cose non sono così semplici. Silvio Berlusconi è attratto dal 40%, tuttavia esistono dei ma. Il presidente di Forza Italia un anno fa diceva: «Solo con questo vecchietto» il centrodestra unito «può raggiungere il 40%, vincere le elezioni e governare il Paese». Non ha cambiato idea, però il centrodestra resta diviso perché “questo vecchietto” non vuol cedere a Salvini o a un leader populista la leadership. Niccolò Ghedini vede un futuro in rosa. L’avvocato di Berlusconi e senatore di Forza Italia, intervistato da ‘Libero’, dà per scontata l’intesa con la Lega: «Solo Silvio può tenere insieme Salvini e Alfano. I sondaggi ci danno al 35%, con il Cav in campo arriveremo al 40%». La complicata partita del 40% è appena cominciata ed è tutta da giocare.
Sono molte le incognite. Non si sa se ci sarà il voto anticipato (come vogliono Renzi, Grillo, Salvini, Giorgia Meloni) o se le urne si apriranno all’inizio del 2018, alla fine della legislatura (come vogliono Berlusconi, Sinistra italiana, i centristi di Alfano, le sinistre del Pd, l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, l’ex presidente del Consiglio Romano Prodi). Non si sa con quale legge elettorale si andrà a votare: se con due sistemi diversi per la Camera e il Senato (derivanti dalle normative rimaste in piedi dopo due sentenze della Consulta) o con un nuovo meccanismo che dovrà approvare il Parlamento. Non si sa se prevarrà un modello elettorale interamente proporzionale o se resterà il premio di maggioranza per chi otterrà il 40% dei voti. Tra tante, strane, possibili alleanze inedite parte lo scontro.
L’esito è molto incerto. Tra le poche certezze, una è centrale: spetta a Sergio Mattarella sciogliere le Camere per poi andare a votare. E il presidente della Repubblica ha sottolineato «l’esigenza generale di armonizzazione delle due leggi per l’elezione della Camera e del Senato». L’avvertimento è preciso: una nuova legge elettorale è «condizione indispensabile per procedere allo svolgimento delle elezioni».