Sono immagini che perfino in questi giorni, in cui tutti si pensa di aver visto tutto, viene difficile anche solamente descrivere. Roba da far impallidire le Zetas messicane e Daesh nel momento di massima esposizione mediatica della loro efferata e truce propaganda. Facce e teste aperte, donne costrette a gridare cose che le vengono imposte prima di essere violentate e poi uccise. Ragazzini infilati sotto a ruote di enormi camion e fatti schiacciare. Altri uccisi per strada mentre sono sul motorino. Ci sarebbe molto di più ma non credo serva. Questo è quanto sta accadendo in Brasile, per la precisione a Manaus, in Amazzonia. Nei circuiti delle associazioni dei diritti umani brasiliani che da luglio scorso si sono coalizzate e creato una rete, stanno circolando filmati che gli stessi sicari hanno girato durante queste spietate esecuzioni. Sono atti di ritorsione in risposta a quanto accaduto a inizio anno con la strage del carcere.
Sono stati 56 i morti nel penitenziario Anìsio Jobim (Compaj) a Manaus, il 2 dicembre. In tutto il mondo si sono viste immagine cruente di quel massacro. Ma la scia di sangue che ha innescato quegli avvenimenti non accenna a diminuire anche se non si svolge più dentro le mura delle carceri, ma all’aria aperta. Quella di Anìsio non è stato un atto di ribellione verso chi li teneva detenuti ma un vero e proprio regolamento di conti tra “comandi”, così come vengono chiamati in Brasile i cartelli della droga. Due per la precisione: il PCC, che non è un partito ma una delle fazioni che detengono il controllo dei traffici illegali nel Paese. Si è molto rafforzato in questi anni, espandendo il suo dominio. Nel carcere di Manaus decidono di attaccare gli altri, quelli di NDF, per punire un loro capo è detenuto. NDF è un cartello che nasce al nord ma che ora mette insieme varie realtà criminali tra cui il Comando Vermelho, che a Rio de Janeiro è ancora molto forte. Sono i loro maggiori antagonisti. Se li si mettesse tutti insieme costituirebbero un esercito enorme. Il numero di affiliati cresce sempre più. “E’ semplice – raccontano attiviste brasiliane per i diritti umani – o ci pensa lo Stato, che continua incessantemente ad ammazzare nelle nostre comunità, o ci pensa la criminalità. Quando invece che ammazzati, i ragazzini sono arrestati, dove pensate che vadano a finire? Nelle grinfie di questi cartelli che gli promettono protezione e denaro e intanto gli rubano la vita”. Il Brasile conta più di mezzo milione di carcerati, la maggior parte sono poveri, neri che vivono nelle comunità più periferiche. Ma il Brasile è anche il Paese con più civili morti ammazzati in azioni di polizia. Muoiono ammazzate 115 persone al giorno, in Brasile. I penitenziari sono stracolmi e la popolazione non accenna a diminuire.
Si può finire dentro per un nulla, poi ci vogliono mesi prima di avere un processo. Le carceri diventano quindi il luogo dove fare proselitismo, dove costringere chi arriva a scegliere da che parte stare. Non è la prima volta che nelle carceri brasiliane ci sono stati episodi violenti ma così non capitava da molto. La potenza dei social network ha fatto il resto, visto che proprio da dentro il carcere sono arrivate le immagini che finite sui social hanno fatto il giro del mondo. Questi crimini, sia quelli dentro le mura del penitenziario che questi perpetrati tra le strade, avvengono in totale libertà. Sia il 2 gennaio che adesso che gennaio che è quasi alla fine, si è fatto quasi nulla per arginare questa ulteriore impennata di violenza. Anzi, come hanno fatto notare molti i giorni dopo la tragedia, si è più che altro stati a guardare. Ma le notizie che arrivano adesso, anche se circoscritte a un circuito limitato di persone che sono però quelle che di queste problematiche si occupano, fa scattare un allarme forse troppo sottovalutato, che non è solo quello del sovraffollamento delle inumani condizioni in cui si è costretti a stare quando si finisce in detenzione, ma ciò che comporta il percorso carcerario, fermo restando che da li si esca vivi. La crisi politica, economica e sociale del Paese non sembra avere fine che quasi si finisce per non fare più caso alle continue segnalazioni di giovani uccisi nelle grandi città, perché scambiati per trafficanti o chi lo sa che altro motivo.
E’ stato così anche per Rickson Rodrigues Barbosa, di 17 anni, ucciso per le strade di Pavao Pavaozinho dalla polizia UPP. “Nelle carceri o si viene torturati fino a morire, come è successo a mio figlio, o si finisce per diventare delinquenti anche se non lo si è”, racconta Deize Carvalho, che in quella favela ci abita e che anche lei ha perso un figlio così, torturato dalla polizia. “Se si ha la fortuna di non finirci, in prigione, si rischia una pallottola nella schiena o alla testa, solo perché si è scambiati per qualcun altro. Che speranza rimane se non c’è una via d’uscita per i nostri figli?”. La preoccupazione però va anche alle famiglie dei detenuti: “Bisogna rendersi conto che chi sta fuori oltre a soffrire perché sa che in che condizioni è costretto il proprio caro, deve anche stare attento a se stesso, perché se durante il periodo di detenzione si possono fare, costretti dagli eventi, delle scelte che hanno conseguenze atroci non solo per chi le fa ma anche per i suoi cari”.
E’ quello che sta accadendo a Manaus.
*Articolo 21 Veneto