Il fallimento dei Centri di Identificazione e Espulsione (CIE) ha posto in evidenza alcuni punti chiari. Il primo è che se metti più di 50 migranti nello stesso posto, finisce l’accoglienza e nasce il business. Partono appalti dall’alto che generano l’interesse al perdurare della criticità e radono al suolo ogni sforzo di responsabilizzazione dal basso, generando nel tempo crisi di rigetto. Il secondo è che la concentrazione di migranti veicola una messaggio di una loro demonizzazione, che autorizza poi una gestione detentiva, basata sull’isolamento, l’abbrutimento e la distruzione dei progetti di vita di chi ha corso rischi immani per realizzarli. Questo ultima frustrazione è quella di rottura del binomio “speranza e legalità”, che fa degenerare il comportamento di un recluso nel CIE nella combinazione criminogena di “disperazione e violenza”.
Il terzo è che occorre impiegare i migranti subito in lavori di utilità sociale, prima che la criminalità li arruoli come manovalanza nei propri ranghi. Ma soprattutto perché il sindaco di un piccolo paese che si vede assegnare 20 migranti deve potersi sentire fortunato per avere chi gli dà una mano per esempio nel pulire sentieri la mattina o ripristinare un vecchio edificio, per ripagarsi i corsi di formazione il pomeriggio. Il beneficio della formula “servizi contro formazione” oltre a preservare con il lavoro la dignità dei migranti, darebbe buoni frutti anche con la positività percepita dai residenti. Inoltre, favorirebbe attività di volontariato con forti motivazioni etiche, la creazione di un clima di reciproca fiducia della collettività con chi si rende utile, trasformando un problema in un’opportunità (come dimostrato dalle sperimentazioni in tal senso già in corso).
Tutto porterebbe ad archiviare i CIE. Ma la scelta di nuovi modelli di micro-accoglienza ha un difetto: riduce la paura. Un sentimento prezioso per drenare consenso elettorale, a cui molte forze politiche non intendono rinunciare.
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