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Ryszard Kapuściński : il viaggiatore inquieto

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Ciò che ci manca maggiormente di Ryszard Kapuściński è il suo coraggio. Perché questo giornalista polacco, questo straordinario inviato di cui ricorre il decimo anniversario della scomparsa, non era solo un narratore che avrebbe meritato il Nobel per la cristallina bellezza della sua prosa ma, più che mai, un viaggiatore inquieto, un esploratore del mondo, un profondo conoscitore dell’animo umano e un appassionato della vita, al punto che la visse con un’intensità, una gioia e una sincerità proprie solo di poche figure destinate a rimanere nell’immaginario collettivo.
Per questo è giusto far sì che non vada perduta la memoria di questo scopritore di caratteri, desideroso di comprendere la natura delle persone, la loro unicità, la loro intrinseca meraviglia, i loro difetti, i loro sogni e gli abissi di barbarie, orrore e meschinità che purtroppo hanno devastato, e continuano a devastare, soprattutto gli angoli più poveri e sventurati del pianeta.
Non si tirava mai indietro, non si arrendeva mai, lottava indomito contro ogni ingiustizia, osservava e scriveva, denunciava, rischiava spesso la vita e andava avanti, regalando al mondo dei veri e propri affreschi, delle testimonianze vivide e indimenticabili, dei ritratti di gente semplice, gli ultimi, i deboli, gli esclusi, coniando definizioni come “Guerra del calcio” per descrivere il conflitto fra El Salvador e Honduras che hanno fatto epoca.

Era un cronista completo, un cercatore di storie, una persona curiosa e un amante dell’avventura, sempre in contrasto con l’ordine costituito, sempre all’opposizione dei poteri forti, sempre schierato dalla parte di coloro che non fanno notizia e dotato di una coscienza civica eccezionale, maturata nel corso di un’infanzia che coincise con gli anni tragici dell’invasione nazista e proseguita nel corso di un’esistenza che lo portò a contatto con la poesia e, al tempo stesso, con le peggiori indecenze dei continenti assoggettati dall’imperialismo americano o da altre forme terribili di violenza e di devastazione del concetto stesso di umanità.
Sosteneva, inoltre, da esperto di dittature qual era, che “è sempre il potere a provocare la rivoluzione. Non certo di proposito. Tuttavia il suo stile di vita e di governo finisce per diventare una vera e propria provocazione. Ciò avviene quando tra i personaggi dell’élite si instaurano il senso dell’impunità e la convinzione di poter fare qualunque cosa, di potersi permettere tutto”, e anche questo suo slancio democratico, questa sua costante incitazione alla riscossa, questo suo camminare a testa alta, forte e fiero delle proprie idee, contribuivano a comporre una personalità notevole, con ben pochi emuli nel panorama internazionale, in quanto sono ben poche le persone dotate del medesimo livello di coscienza critica, della medesima aspirazione a costruire un avvenire migliore e della medesima volontà di agevolare l’emancipazione e la conquista di nuove frontiere e nuove diritti da parte dei popoli oppressi.

Fu, dunque, una sorta di paladino dei disperati: volle conoscerli da vicino, frequentarli, vivere con loro e guardarli negli occhi, provando la stessa paura, lo stesso senso di solitudine e d’abbandono e la stessa ansia di riscatto, mista alla tristezza per una realtà pressoché impossibile da cambiare.
Eppure Kapuściński non si fermò mai, non si diede pace, non si rassegnò, concepì sempre la lotta contro le ingiustizie come una ragione di vita e se ne andò, all’età di settantaquattro anni, dopo aver detto e dato tutto, lasciando in eredità delle vere e proprie pietre miliari, tuttora attuali e tuttora necessarie per comprendere la complessità e, al contempo, l’insostenibilità di un mondo e di un sistema politico, economico e sociale in base al quale otto stramiliardari possiedono la stessa ricchezza di tre miliardi e seicento milioni di poveri.
E oggi che non c’è più, il suo bagaglio culturale, la sua irrequietezza e il suo indiscutibile valore sono qui, compagni di lotta imprescindibili, a indicarci il cammino e a darci forza, al cospetto di una realtà complessiva che deve essere compresa, contrastata e cambiata da cima a fondo, essendo diventata ormai una prigione, per non dire una tortura, per tutti coloro che non appartengono all’uno per cento della popolazione, ossia a quel ristretto gruppo di privilegiati il cui benessere amorale, raggiunto a scapito del restante novantanove per cento di cittadini, sembra essere diventato eccessivo persino per i frequentatori abituali del forum di Davos.


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