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L’Unità, il nervo scoperto del Pd

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Quello che si è dentro si è pure fuori. Massima antica, sempre attuale, valida anche per la brutta vicenda che riguarda le “relazioni pericolose” tra il partito democratico e l’Unità. Insomma, è difficile dare credito al Pd come forza di governo se non è in grado di gestire decentemente le difficoltà del suo quotidiano. Intendiamoci. La crisi viene da lontano e sarebbe assurdo, oltre che sbagliato, afferrare il bandolo solo dalla coda. Passato per diverse docce scozzesi, chiuso e riaperto con difficoltà, sembra, però, giunta davvero l’ora X. O c’è una scelta netta soggettivamente e lineare nelle conseguenze, o le sorti della gloriosa testata sembrano inesorabilmente segnate.

Nelle prossime ore parrebbe annunciarsi un incontro tra il partito (Renzi?) e l’altra parte della proprietà, ovvero il gruppo di Pessina. Il timing è spietato, visto che il prossimo primo febbraio l’assemblea dei soci dovrà decidere e il codice civile non può essere eluso. Per evitare la messa in liquidazione è urgente la ricapitalizzazione, perché le imprese editoriali non vivono d’aria. E, se è meglio di niente un incontro “padronale”, risulta davvero incomprensibile l’assenza di un dialogo diretto tra il segretario Matteo Renzi, il direttore Staino e la redazione. Il Cdr è ancora in lista di attesa, mentre piovono pietre, ivi compreso l’inquietante annuncio di chiudere la baracca con licenziamenti e senza neppure gli ammortizzatori sociali. E’, dunque, affidabile un gruppo dirigente che lascia morire un gioiello di famiglia senza offrire una prospettiva, e neppure fornendo un quadro cognitivo adeguato sulle varie tappe del declino? Il Pd ha dato ampiamente pessima prova sulla Rai, sulle telecomunicazioni, sul digitale. Tuttavia, proprio nell’editoria, vi era stato un piccolo raggio di sole, con la legge n.198 dell’ottobre scorso, meno di una riforma ma comunque qualcosa. Ridefiniti e moralizzati i criteri per l’attribuzione delle risorse del Fondo per il pluralismo, vengono esclusi di ufficio gli organi dei partiti e delle organizzazioni sindacali, come se un simile marchio li rendesse di per sé impresentabili, e non l’eventuale aggiramento dei requisiti richiesti. Del resto, accanto all’evocazione dell’incolpevole Antonio Gramsci, sulla testata appare il distico “Questo giornale ha rinunciato al finanziamento pubblico”. Appunto, le conseguenze si vedono. Dopo anni di consistenti finanziamenti, con conseguente “modello di business”, ecco che si taglia una fonte rilevante, per di più in una fase di caduta generale delle vendite e della pubblicità. Lasciamo stare il merito politico e ogni valutazione sul prodotto. Qui è in gioco la vita di uno dei simboli della stampa democratica in Italia e nell’intero villaggio globale. Come rischia sul corpo vivo chi lavora: 33 persone tra giornalisti e poligrafici, già provate da un tempo lungo di quaresima e animate –però- da un forte spirito di appartenenza nonché da un’indubbia professionalità.

Non è lecito assistere da spettatori inerti ad una morte annunciata. Quando chiude un giornale, si amputa un pezzo di democrazia e si lancia un desolante messaggio di disinteresse e di incapacità di risolvere i problemi. Un partito dichiaratosi pomposamente nuovo e coraggioso non riesce a immergersi nelle logiche e negli stili della società dell’informazione. E’ amaro sottolinearlo, perché emerge davvero un deficit di strategia.

Non suoni retorica la solidarietà verso coloro che scrivono e permettono l’uscita nelle edicole de l’Unità. I nervi sono scoperti per tutti.


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