Mentre infuriano le polemiche sull’informazione nel web e tutto ciò che ne consegue, è opportuno e necessario per giornalisti e giuristi domandarsi quale sia il limite che intercorre tra diritto alla riservatezza, diritto al trattamento dei dati personali e diritto all’identità personale – e conseguente diritto all’oblio – da un lato e diritto alla libera manifestazione del pensiero, diritto ad informare e diritto ad essere informati, dall’altro. A tale proposito, si può ancora parlare di diritto all’oblio, in un’epoca in cui, grazie soprattutto all’avvento ed allo sviluppo della tecnologia, risulta molto complesso se non addirittura impossibile rimuovere definitivamente notizie, commenti ed in generale le tracce che ognuno di noi lascia sulla rete?
In un mondo digitale come il nostro, in cui informazioni e dati vengono “caricati” (upload) e “scaricati” (download) dall’utente sul proprio account e messi a disposizione di altri utenti, che a loro volta possono condividerli con altri soggetti creando un effetto a cascata irrefrenabile, diventa quasi anacronistico discutere del diritto ad essere dimenticati. Una notizia caricata sul web, infatti, può essere potenzialmente scaricata da miliardi di utenti: da qui consegue l’impossibilità materiale di rimuovere radicalmente e definitivamente i dati caricati dagli utenti su internet.
Proprio questa circolazione e diffusione di informazioni, conoscenze ed opinioni potenzialmente mondiale ha determinato la creazione di un archivio di dimensioni globali, nel quale le notizie vengono inserite senza essere contestualizzate e senza il rispetto dei criteri di qualità dell’informazione. Nella memoria globale di internet ogni azione è simultanea ed è estremamente complesso classificare ed ordinare i fatti nella loro corretta sequenza logico – temporale: la notizia è destinata a rimanere perennemente sul web e ad essere riutilizzata come fonte di informazione. È in tale contesto che si parla di diritto all’oblio e sorge nuovamente il problema del bilanciamento tra diritto alla riservatezza, diritto al trattamento dei dati personali e diritto all’identità personale da un lato e diritto alla libera manifestazione del pensiero, diritto ad informare e diritto ad essere informati, dall’altro.
Nella ricerca di un equilibrio tra i diritti in gioco – tutti costituzionalmente garantiti – è necessario partire dal presupposto per cui un fatto privato può costituire legittimamente oggetto di cronaca se sussiste un interesse pubblico alla notizia: in tale caso la collettività deve essere informata tempestivamente e con completezza. Una volta che la collettività è stata informata del fatto, cessa l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto stesso, in quanto l’esigenza di conoscenza della notizia è già stata soddisfatta.
È a partire dalla completa acquisizione della notizia che sorgono i presupposti del diritto all’oblio. Il diritto all’oblio, nato storicamente in rapporto all’esercizio del diritto di cronaca giornalistica, consiste nella pretesa di un soggetto di riappropriarsi di notizie che lo concernono, rese note in passato, ma sulle quali è poi calato l’oblìo. Detto diritto, come già visto, si scontra con il diritto all’informazione, che, in rapporto alla rievocazione delle notizie, deve essere limitato dall’utilità sociale di tale ripubblicazione. Da quanto sopra, emerge pertanto che la prima verifica da effettuare nel caso si voglia ripubblicare una notizia già divulgata in passato, è quella concernente la sussistenza dell’attuale interesse della collettività alla ripubblicazione della notizia.
Il presupposto del diritto all’oblio, infatti, è che l’interesse pubblico alla conoscenza di un fatto è racchiuso in quello spazio temporale necessario ad informarne la collettività e che con il trascorrere del tempo si affievolisce fino a scomparire. In pratica, con il trascorrere del tempo il fatto cessa di essere oggetto di cronaca per riacquisire l’originaria natura di fatto privato; e proprio perché fatto privato, in relazione ad esso tornano ad operare i principi in materia di diritto di cronaca: non può essere riproposta una vecchia notizia che possa ledere i diritti del soggetto coinvolto, se non vi è un reale interesse pubblico ed un’attuale esigenza informativa. Proprio perché l’elemento del trascorrere del tempo è fondamentale per il bilanciamento degli interessi in gioco, si comprende come nel caso di notizie divulgate sul web sia estremamente complesso operare tale bilanciamento: su internet, infatti, le notizie non vengono mai cancellate e pertanto l’esigenza non è quella di impedire la ripubblicazione di una notizia passata, ma quella di impedire che tale notizia venga ricollocata nell’attuale presente.
Sulla base di tali premesse, la Corte di Giustizia Europea nel 2014, nell’ambito della controversia Google – Spain, ha riconosciuto la responsabilità del motore di ricerca per il trattamento di indicizzazione dei dati personali in caso di violazione del diritto all’oblio. La Corte ha infatti ritenuto che, in generale, il provider (nel caso di specie, Google) nonostante non abbia il controllo dei dati – che sono gestiti dal sito sorgente – svolge un’attività di indicizzazione degli stessi, equiparabile a quella del trattamento dei dati personali. Quando, infatti, l’utente della rete effettua una ricerca avvalendosi di un motore di ricerca, i risultati visualizzati non sono il frutto di una ricerca istantanea sull’intero web, ma di una ricerca effettuata sui contenuti già indicizzati, cioè già “trattati”, dal motore di ricerca stesso, che indicizza costantemente nuove pagine web ed aggiorna quelle già indicizzate: in altre parole, il motore di ricerca, essendo responsabile del trattamento dei dati, ha l’obbligo, ai sensi degli artt. 12, lettera b), e 14, primo comma, lettera a), della direttiva 95/46, di non ledere il diritto alla conservazione dell’attualità digitale (diritto all’oblio) attraverso l’indicizzazione di link contenenti notizie non più attinenti alla vita attuale del soggetto.
La Corte di Giustizia ha pertanto ritenuto che la richiesta di un soggetto di eliminare la pagina internet indicizzata contenente informazioni e dati che lo riguardano, sia sempre da accogliere qualora questi contenuti gli arrechino pregiudizio, sia trascorso un determinato lasso di tempo dalla pubblicazione della notizia e quest’ultima non sia stata rimossa dal sito sorgente. In tale contesto, pertanto, determinate notizie, seppur ancora esistenti sui siti sorgente, vengono deindicizzate, ossia viene fatto in modo che siano raggiunte con più difficoltà dagli utenti e siano quindi meno accessibili. Non si parla propriamente di diritto all’oblio, quindi, ma di diritto al ridimensionamento della propria visibilità telematica. Tale soluzione è giustificata dalla Corte alla luce della difficoltà di assicurare piena tutela a chi richiede la cancellazione dei dati direttamente agli editori dei siti web (siti sorgente), spesso non assoggettati alla disciplina della direttiva europea in materia, tenuto anche conto del fatto che spesso questi dati sono stati pubblicati su un numero molto elevato di pagine web.
L’unico caso in cui il diritto all’informazione ed il diritto ad essere informati prevalgono sul diritto all’oblio del singolo individuo – e sui connessi diritti riconosciuti dagli artt. 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea – è quello in cui sussista un evidente interesse pubblico alla conoscenza del fatto. La pronuncia della Corte di Giustizia è molto rilevante anche perché richiama i presupposti che devono sussistere affinchè il trattamento dei dati personali sia lecito: tra di essi vi sono il criterio dell’adeguatezza, della pertinenza e della non eccedenza rispetto allo scopo del trattamento, l’aggiornamento, la conservazione per un arco di tempo non eccessivamente lungo, a meno che tale conservazione non sia ispirata da finalità di carattere storico, statistico o scientifico.
I giudici europei, inoltre, enunciano alcuni casi in cui il diritto all’informazione prevale sul diritto all’oblio, come nel caso in cui la persona interessata rivesta un ruolo pubblico o il tempo trascorso tra gli eventi oggetto della notizia e la pubblicazione della stessa non sia rilevante. Il progetto di stilare delle linee guida da seguire nel bilanciamento tra diritto all’oblio e diritto all’informazione è stato perseguito anche dal Gruppo 29, composto dai Garanti privacy nell’ambito dell’unione Europea.
Il Gruppo ha ritenuto che in tale bilanciamento bisogna tener conto di diversi fattori, tra cui la natura dell’informazione, il suo carattere sensibile per la vita dell’interessato, l’interesse del pubblico a conoscere detta informazione – interesse che può essere legato anche al ruolo ricoperto dall’interessato nella vita pubblica. Il Gruppo dei Garanti ha peraltro precisato che le autorità competenti devono considerare:
– oltre al nome vero e proprio, anche pseudonimi e nickname, nel caso siano connessi con la reale identità della persona fisica che richiede la deindicizzazione;
– il ruolo rivestito nella vita pubblica dall’interessato, concetto più ampio di quello di “personaggio pubblico”;
– l’età dell’interessato: nel caso questi sia minorenne è più probabile che le Autorità autorizzino la deindicizzazione;
– l’esattezza dell’informazione: se i dati, infatti, sono inesatti (la prova dell’inesattezza deve essere fornita dall’interessato) e creano un’immagine sbagliata del richiedente, questi ha più probabilità di ottenere la deindicizzazione;
– la pertinenza dei dati (valutando, in primo luogo, se i dati riguardano la vita privata o la vita professionale del soggetto ed il tempo al quale risalgono i dati stessi, dal momento che i dati obsoleti, proprio perché non attuali, sono inesatti) e la non eccedenza di tali dati rispetto alle finalità perseguite;
– che i dati sensibili ex art. 8 della Direttiva 95/46/CE hanno un impatto maggiore sulla vita di una persona rispetto agli altri dati personali;
– che nel caso l’uso dei dati possa mettere in pericolo il richiedente e sussista un rischio sostanziale e concreto, dovranno accordare la deindicizzazione;
– che se determinati dati sono stati divulgati con il consenso del titolare degli stessi, la revoca del consenso fa venire meno la legittimità del perdurante trattamento;
– che se i dati sono stati pubblicati per finalità giornalistiche, il caso va valutato singolarmente;
– che nel caso le informazioni riguardino la commissione di reati, la deindicizzazione dovrà essere accordata per i dati riguardanti i reati minori molto risalenti nel tempo: per gli episodi molto gravi, al contrario, l’interesse pubblico alla loro riproposizione non viene mai meno, tanto che parlare di diritto all’oblio per i responsabili di tali crimini risulterebbe addirittura irriverente e diseducativo.
In linea generale, proprio in virtù della complessità della materia, dell’importanza dei diritti e degli interessi in gioco e delle varie circostanze che possono comportare deroghe ed eccezioni alle regole generali, le autorità europee si sono sempre espresse ritenendo che ogni caso vada valutato singolarmente, in quanto non è possibile stabilire a priori quale interesse prevalga su un altro, né in tale bilanciamento dei diritti è possibile raggiungere un equilibrio definitivo e valevole in ogni tempo e circostanza.
Anche il Regolamento europeo n. 2016/679 ha riconosciuto ad ogni interessato il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano senza ingiustificato ritardo: il diritto di informare, tuttavia, prevale laddove la diffusione di tali informazioni sia necessaria per l’esercizio del diritto alla libertà di espressione o per altri motivi di carattere generale come quelli del pubblico interesse, dell’esercizio di pubblici poteri, per finalità di interesse pubblico, di ricerca scientifica, storica o statistica o per l’esercizio o la difesa di un diritto in sede giudiziaria.
Per quanto riguarda la giurisprudenza italiana, il Tribunale di Roma, nel 2015, ha fatto applicazione dei principi enunciati dalla Corte di Giustizia nella sentenza Google/Spain ed ha ritenuto che il diritto all’informazione prevale nel caso le notizie riguardino un soggetto che riveste ruoli pubblici, in quanto in tale caso non sussiste solo il diritto dell’opinione pubblica ad essere informata, ma anche il dovere, di tale soggetto pubblico, di essere responsabile e quindi trasparente verso i cittadini, riguardo alle scelte relative alla sua attività istituzionale. Anche la giurisprudenza della Corte di Cassazione ed il Garante della privacy si sono allineati alle pronunce delle istituzioni europee: in particolare, il Garante, in un’importante pronuncia, ha riconosciuto che nel caso in cui la notizia di cui si chiede la deindicizzazione abbia ad oggetto reati gravi ed abbia destato un forte allarme sociale prevalga il diritto all’informazione e sussista l’interesse pubblico alla conoscenza della notizia.
Il quadro delineato dà conto di quanto internet sia uno strumento eccezionale ma pericoloso: non consente di assicurare una tutela effettiva a posteriori e conseguentemente, soprattutto quando sono in gioco interessi e diritti fondamentali della persona umana, sarebbe auspicabile una maggiore attenzione a ciò che si condivide sul web. In una recente intervista, Antonello Soro, Presidente del Garante per la protezione dei dati personali, dopo aver spronato i cittadini – ed in particolare i giovani – ad una maggiore e più approfondita comprensione delle insidie del web, ha giustamente affermato che in questo settore non basta la repressione, serve l’educazione digitale: Internet ha la sola “colpa di moltiplicare un giudizio, di amplificare un grido (…) il rispetto della dignità della persona è un bene prezioso e per difenderlo serve intelligenza, non repressione”.
E proprio le insidie legate al mondo digitale hanno fatto sì che, in materia di tutela dei dati, sembra per molti aspetti ribaltato il principio per cui nell’ambito della manifestazione del pensiero la libertà è la regola e il limite l’eccezione, così come sembra ribaltato il principio per cui gli illeciti commessi con la stampa non si prevengono ma si reprimono.