Scritto da Vincenzo Musacchio
ROMA – I processi penali contro le mafie in sostanza non sono altro che “battaglie” che ci dovrebbero vedere tutti impegnati e coinvolti: magistrati, cittadini, istituzioni, forze dell’ordine, rappresentanti sociali e imprenditoriali.
E’ questo il principale motivo per cui l’opinione pubblica deve essere fedelmente informata di ciò che accade nel processo, anzi, personalmente, mi auguro che l’attenzione dei mass media possa restare viva durante tutte le fasi del processo. Se le mafie fanno del silenzio il loro punto di forza, di contro, occorre che lo Stato faccia di tutto affinché i cittadini siano puntualmente informati di quello che avverrà nel processo, ad esempio, rendendo pubblici i contenuti di alcune intercettazioni telefoniche o ambientali e ciò per rendersi conto di come i concetti, il linguaggio, i propositi e le interlocuzioni siano riconoscibili come esplicativi di una realtà mafiosa sempre più preponderante. Tale problematica è riemersa recentemente durante il processo “Aemilia” e la prova di quanto ho appena scritto è evidenziata dalla richiesta alla Corte di celebrare il dibattimento del processo a porte chiuse. La richiesta è senza dubbio una modalità per spegnere le luci su un processo che testimonia come anche l’Emilia-Romagna sia terra d’infiltrazioni mafiose. Si tratta di una delle molteplici tecniche di sfiancamento dei grandi processi di mafia in uso già ai tempi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Si vuole il silenzio perché porta vantaggi che invece con la pubblicità non si avrebbero. Il messaggio è chiaramente strategico. La risposta a queste richieste dovrebbe essere la celerità, la massima trasparenza e la pubblicità del processo. Di conseguenza, bene ha fatto il Presidente del Tribunale a respingere la richiesta degli imputati rimarcando altrettanto giustamente che il diritto all’informazione è nella Costituzione. (Vincenzo Musacchio, Giurista e Direttore Scientifico della Scuola di Legalità “don Peppe Diana” di Roma e del Molise).