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Dostoevskij, un  “caso” ancora aperto. Lo affronta Camilla Migliori in tre opere teatrali edite da Aracne

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Sin da quando, anni fa, ebbi modo di conoscere Camilla Migliori- di apprezzarne qualità professionali, di umana sobrietà e lealtà- fui colpito dalla lieve, “leggera” sobrietà  del suo  interagire con chiunque: che non aveva   soluzione di continuità con la paziente, scrupolosa tessitura registica dei suoi spettacoli. E, da  quella singolare prospettiva, essere narratrice “del bizzarro, della metamorfosi, dell’inaspettato surreale o esopiano”  che alligna nella ‘birbante’,   a volte dolente radiografia che l’autrice esercita (con perforazioni  osservative) sia su eventi minimali della microstoria quotidiana (che tutti accomuna), sia (come fu nel caso di un meritevole spettacolo sul ‘tratto’ umano di Maria Antonietta molto prima del famoso film di Sofia Coppola) su quelli che, per comodità, annoveriamo tra gli snodi e personaggi della Grande Storia.

Come puntualmente è dato ripetersi, oggi, nel caso di Fedor Dostoevskij, scandagliato  non mediante la solita bio.pic  drammaturgica (del “grande genio” luciferino), ma frammentato, quasi delocalizzato in tre opere di teatro che potrebbero (possono) degnamente esistere di vita autonoma, comunque  “ottimizzate” in un progressivo  unicum editoriale.   Per agevolarne l’auspicabile approccio (utile sia al lettore comune, sia agli addetti ai lavori, in cerca di ‘novità’ di rilievo  e moderato costo di eventuale allestimento)  diremo subito che il libro ha una scansione tripartita, ciascuna integrabile all’altra per tappe e tempi progressivi e soggettivi.

Nella prima,  ”Fotogrammi di una vita”,  si  ‘drammatizzano’,  con lineare sintesi  e scremature  cronologiche, i momenti  più tragici e decisivi della vita dello scrittore, sublimati  per raro “incantesimo dell’anima che si distacca dalla sue ulcere corporali, laceranti, immanenti” (come letale mantello di Medea) in ciascuno dei romanzi e racconti (esemplare “Memoria dalla casa dei morti”),  selaborati durante e dopo la segregazione tra Castello di Tobol’sk e Siberia, per ordine di Nicola I – con fondata accusa  di  partecipazione a “bande sovversive” (cfr “I demoni”, specie nell’edizione cinematografica, ben dispiegata, di Giuliano Montando).

L’invenzione esplicativa di un personaggio “esente ed esterno” , quello del Narratore di stampo ottocentesco, permette all’autrice di   ricostruire quasi “a freddo”  le relazioni sussistenti  fra Dostoevskij ed altri intellettuali del suo tempo  (Turgenev, Nekrasov, Tolstoj  peraltro mai incontrato), unitamente al  critico Strachov e all’ amico filosofo Solov’ev, donde emerge –   a mio parere- non tanto la ricerca di “verità assolute” o “cristologiche” (alle quali Fedor si affiderà verso la fine della breve vita) quanto “l’ostinazione” nel volere e sapere costruire, con analitiche intuizioni antecedenti  l’esperienza freudiana, “trappole, rovelli ed ipotesi” di catarsi per il “semplice” gusto di affidarle ad altre forme di dannazione (“Il sosia”, “Il giocatore”).

Da cui estrapolare nuove ansie di espiazione  e successivi baratri di perdizione : religiosamente concepiti come anarchico impulso di hybris e deviazione (anticonformismo dell’ego?)  dal “governo del super-io” o dell’ ”io-etico” come nel proponibile  confronto tra Fichte e  Kant.  Tracotanze e coazioni a ripetere che, per loro natura (dialettica, speculativa, gusto di un azzardo che rimanda a Prometeo) non avrebbero mai potuto avere requie in un’indole, in uno spirito – perpetuo status di  autocombustione- che in Dostoevskij (accidentalmente?) si incarnarono.

Più teoretico e probabilmente adatto ad una lettura anche solo ‘cartacea’ – pur sempre di forte impegno intellettivo- è il  il secondo testo, titolato  “Dostoevskij, un uomo una moltitudine” in cui  vengono assemblati, per cicliche scene e sequenza,  i nuclei tematici del pensiero dello scrittore.  Rispetto ai quali –oltre all’imbarazzo della scelta- trovo ancora imprescindibile quanto a teatro (fra Brook e Ronconi) si ebbe l’avventura di capire mediante la breve rappresentazione de “Il grande inquisitore”, ansa implacabile e religiosamente “oltraggiosa” dei torrenziali “I fratelli Karamazov”  , magistralmente portato in   laddove si narra di un ipotetico, misterioso ritorno del Cristo in terra – a Siviglia in particolare – all’epoca della Santa Inquisizione.

Per testimoniare con la sua muta presenza, le spalle al pubblico, la “necessità” teologica di un silenzio che dovrà protrarsi  sino alla fine dei tempi, pena la banalizzazione (la fede, per serbarsi intatta, non può “secolarizzarsi”) di una regalità spirituale che non è di questo mondo. E che – elemento basilare- non impone a nessuno acquiescenza o “estorsione di credo”. Ma sul cui letto di Procuste andrà vivisezionato – aggiungiamo da laici – il postulato, la speciosità del potere (politico-imperiale) della Chiesa di Roma.

Terzo  ed ultimo testo è la breve  “ Conversazione: da Dostoevskij a Tarkovskji” , in cui la Migliori tenta (riuscendoci) di   attualizzare il pensiero dello scrittore “toccando”  il tema della finalità dell’Arte che non deve (dovrebbe) mai essere “oggetto di mercato o mercimonio”. Si entra pertanto nel cuore segreto ed alquanto “di tenebra” di un film (del 1979) amatissimo, nebuloso, ovviamente mai univoco (quindi indecifrabile) come “Stalker” (traducibile in “inseguire furtivamente”),  le cui  sembianze di apologo fantascientifico tramandano  una sorta di “recondita preghiera” dell’humus  russo-poetico-centenario.

Ove contrapporre gli evangelici “poveri di spirito” (in lizza per il regno dei Cieli) ai più ciarlieri, artificiosi, inattendibili  “intellettuali organici” di regime e potere, in qualsiasi epoca e forma essi si sperticano. L’enigmatica compattezza del dialogo designa- credo- la sua ideale destinazione (fruizione) nel radiodramma.


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