Dal 17 gennaio 2017 il Teatro alla Scala mette in scena Don Carlo di Giuseppe Verdi in una produzione del Festival di Salisburgo per la regia di Peter Stein e la direzione di Myung-Whun Chung. Cinque anni dopo La Forza del destino e quattro anni prima di Aida, il 54enne Giuseppe Verdi compose per il Théâtre de l’Académie Impériale de Musique di Parigi Don Carlos in parziale stile grand-operà e che venne rappresentato per la prima volta l’11 marzo 1867. L’opera verrà più “nazionalmente” rivista con il titolo “Don Carlo” quasi vent’anni dopo per la Scala di Milano, in quella che è la più nota versione musicata della celebre piéce di Friedric Schiller..
Solitamente poco concessivo ai sentimenti amorosi, Giuseppe Verdi racchiude in questo straziante dramma a tinte storiche e un po’ fosche ben tre amori infelici che ruotano intorno alla figura del giovane e fragile Carlo. Quello impossibile di lui per Elisabetta di Valois, la giovane moglie del Padre Filippo II, quello da lui non corrisposto della principessa Eboli ed infine quel complesso rapporto virile di stampo con il fedele Marchese di Posa Rodrigo, in cui in molti videro una sorta di latente omosessualità. Forse non a caso si trattò dell’opera verdiana di gran lunga preferita dal regista milanese Luchino Visconti che ne firmò due celebri edizioni, la prima nel 1958 al Covent Garden di Londra e la seconda nel 1965 al Teatro dell’Opera di Roma.
Intorno ai tre protagonisti aleggiano le due grandi figure ieratiche affidate alla corda vocale del basso, quella dell’infelice regnante e padre Filippo II e quella del grande Inquisitore, figura per certi aspetti a metà tra il Commendatore del Don Giovanni mozartiano ed il sacerdote di Aida. Musica stupefacente con picchi di vera e propria magia soprattutto nel primo atto e in quel memorabile incipit orchestrale alla grande scena finale di Elisabetta, unita ad alcuni momenti sia corali che più raccolti, di grande effetto verdiano, basti pensare alla cd. scena dell’autodafè, rendono quest’opera una delle più straordinarie creazioni melodrammatiche di sempre.
Sempre non a caso, Don Carlo ha attirato quasi tutti i più grandi direttori del dopoguerra, tra i quali, a mio parere, svetta ancora oggi la insuperata e forse insuperabile lettura di Claudio Abbado, leggendario protagonista alla Scala di Milano di alcune edizioni rimaste storiche, prima fra tutte quella dell’inaugurazione del 7 dicembre del 1968 nota anche per la violenta contestazione fuori da Teatro da parte dei militanti del Movimento Studentesco. Ma anche tutti o quasi i più grandi cantanti verdiani del dopoguerra si sono esibiti in Don Carlo. Nel ruolo di Carlo si sono cimentati tenori quali Carlo Bergonzi (il più grande in assoluto), Franco Corelli e Placido Domingo, ma anche quello che era il pallino di Herbert Von Karajan, ovvero il giovane Josè Carreras, che facilitato da una tessitura centrale che esaltava quel suo timbro vocale benedetto faceva sobbalzare dalla sedia già all’attacco della romanza iniziale “Io l’ho perduta”. Piuttosto il tardivo Luciano Pavarotti poteva risparmiarsi quella infelice inaugurazione scaligera con Muti pure riversata su DVD. Il nobile e commovente Marchese di Posa ha trovato nel legato baritonale di Renato Bruson forse l’interprete più completo, ma anche la sapienza di un Tito Gobbi o l’intelligenza insinuante di un Sherril Milnes o le classicità verdiane di Leonard Warren, Robert Merrill e Ettore Bastianini non furono da meno, mentre l’eccessiva tonitruanza, un po’ sempre troppo sull’acceleratore, dell’abbadiano doc Piero Cappuccilli fece qui emergere, a differenza di Macbeth e Simon Boccanegra, più il cantante dotato che l’interprete ispirato. Nei ruoli basso-profondo di Filippo e del Grande inquisitore fu vezzo diffuso, come per il caso di Ramfis e del Sacerdote di Aida, quello dell’alternanza di ruoli tra i maggiori bassi verdiani del dopoguerra, anche se a mio parere i colori del giovane Nicolai Ghiaurov nella grande scena Ella giammai mi amò, non li ha più trovati nessuno. Ma come dimenticare lo straordinario mezzo vocale di Boris Christoff, la bellezza della voce compatta di Cesare Siepi ed anche, e perché no, la rutilante vis interpretativa di Ruggero Raimondi, più interessante forse come Grande inquisitore che come Filippo. Il ruolo ibrido mezzo-sopranile drammatico di Eboli (forse vocalmente parlando uno dei più strepitosi in assoluto) ha trovato alcuni mostri sacri che hanno saputo esaltare i fortunati di allora che c’erano. C’è ancora chi ricorda quella serata scaligera degli anni settanta in cui la ancora sconosciuta russa Elena Obratsowa divenne in un sol colpo, dopo uno sconvolgente O Don fatal, una diva internazionale, ma se qualcuno ha avuto modo di ascoltare in uno dei tanti live, o anche in disco ufficiale, l’americana Shirley Verrett capirà come la canzon del velo potesse assumere screziate insenature tali da smentire in un sol botto ogni perplessità sulla sensibilità musicale di Verdi. Poi è ovvio che anche voci straordinarie tipo Ebe Stignani, Grace Bumbry o Fiorenza Cossotto abbiano saputo trovare il meglio anche per la sfortunata Eboli.
Infine veniamo al ruolo di Elisabetta, meta ambita e non sempre adeguata, di quasi tutti i principali soprani lirici del dopoguerra, al punto che solo a leggere cotanti nomi vien la pelle d’oca dalla meraviglia. E qui va a gusti, chi vuole lo strazio dell’anima adulta non rinuncia a Maria Callas, chi l’incanto giovanile della purezza andrà a cercarsi una delle tante Montserrat Caballé d’annata, chi cercherà la rotondità piena della cavata tipica del Verdi maturo e più “manzoniano” si rivolgerà a Renata Tebaldi o ad Anita Cerquetti, chi vorrà ripulirsi le orecchie da ogni crosta sonora amerà la più moderna Mirella Freni, chi ricercherà sforzo e l’approfondimento del fraseggio si affiderà alla giovane Leyla Gencer o a Renata Scotto, insomma, le solite note, ivi compresa quella giovane Katia Ricciarelli che eseguiva l’intero finale in pianissimo commuovendo fino alle lacrime.
In conclusione e anche solo per sentire quell’orchestra crescente prima del Tu che le vanità che faceva assumere a Maria Callas, in quel noto concerto ripreso in video, tutte le espressione facciali di chi ama la musica più di ogni altra cosa al mondo, vale certamente la pena di andare a sentire Don Carlo. Il cast radunato per l’occasione è formato da Krassimira Stoyanova, Ekaterina Semenchuk, Francesco Meli, Simone Piazzola, Ferruccio Furlanetto e Orlin Anastassov. Il CD che consiglio per un previo ascolto è senza dubbio alcuno la vecchia edizione EMI del 1970 diretta da Carlo Maria Giulini con Placido Domingo, Montserrat Caballé, Sherril Milnes, Shirely Verrett e Ruggero Raimondi.