ROMA – Linguista, docente universitario, saggista: ma soprattutto un appassionato della lingua e delle parole. E’ morto a 84 anni Tullio De Mauro, uno degli uomini di cultura più conosciuti dell’Italia contemporanea. Ministro della Pubblica istruzione dal 2000 al 2001, presidente della Fondazione Bellonci, che organizza il premio Strega, De Mauro era nato a Torre Annunziata, in provincia di Napoli, il 31 marzo del 1932. Si era laureato in Lettere classiche a Roma nel 1956, poi una lunga carriera universitaria: alla Sapienza è stato direttore del Dipartimento di scienze del linguaggio, e in moltissimi altri incarichi ha seguito e in parte guidato il processo di cambiamento del linguaggio.
Semiologo, autore di innumerevoli opere di linguistica, intellettuale tra i più impegnati in favore della crescita culturale degli italiani, Tullio De Mauro per oltre mezzo secolo ha riflettuto sul significato delle parole e il loro uso.
Il mensile SuperAbile, edito dall’Inail, nel 2012 gli aveva chiesto un aiuto per muoversi all’interno del campo minato dei termini utilizzati per indicare la disabilità. Un campo dove si ha spesso l’impressione che ogni parola sia quella sbagliata, un vero terreno di battaglia dove antiche ottiche si scontrano con nuove conoscenze e sensibilità. E dove lui stesso ricordava che la ricerca delle parole giuste deve sempre andare di pari passo con la costruzione di nuove condizioni culturali, economiche e sociali. Riportiamo qui di seguito il testo integrale dell’intervista, curata da Antonella Patete, al grande linguista oggi scomparso.
Come si è evoluto negli ultimi decenni il linguaggio che definisce la disabilità?
Grazie per l’invito a riflettere su un tema complesso, per i suoi aspetti linguistici, certamente, ma anche per i molti fattori di altro ordine che si intrecciano alla scelta di parole nel campo semantico della disabilità. In attesa di studi specialistici d’insieme che analizzino la storia di questo campo nelle diverse lingue, le considerazioni ben fondate sono solo di primissima approssimazione. La prima cosa da dire è che questo campo semantico è un campo di battaglia, dove antiche ottiche, impastate di ignoranze e pregiudizi, si scontrano con nuove conoscenze e sensibilità, con nuove esigenze di scienza, di vita sociale, di umanità. Nelle nostre lingue e culture lo stesso campo generale e unitario è, mi pare di dover dire, di formazione recente, ottocentesca, legato allo sviluppo dell’incidenza sociale di pratiche mediche e alla crescita della coscienza della parità di diritti. Nella tradizione, i cui riflessi persistono tuttora nel parlare, concettualizzata e verbalizzata non è la disabilità in generale, comunque la si voglia chiamare, ma sono le innumerevoli forme che essa assume nell’orizzonte dei sedicenti normali. In primo piano ci sono ciechi, sordi, muti, storpi, zoppi, gobbi, dementi, imbecilli, pazzi che si aggirano oltre i margini dell’universo dei sani. Questa storia antica sopravvive tuttora nel nostro parlare, ci è difficile liberarcene per la concretezza e crudezza che ci offre per definire in modo non mieloso ed eufemistico chi mal ode, o vede, o articola, o si muove, o tiene la stazione eretta, o “ragiona come noi”. E non solo sopravvive: in anni recenti talune comunità di persone con alcune forme di disabilità hanno rivendicato il diritto a continuare a denominarsi con le parole più crude e dirette. Ciechi, dunque, o sordi, contro il tentativo pressante di introdurre espressioni elaborate in sedi specialistiche e usate spesso in chiave di copertura eufemistica: videolesi, audiolesi, motulesi, non vedenti, non udenti, non deambulanti…
Quando inizia questo processo?
La ricerca di espressioni generali, unificanti e sostitutive delle tradizionali comincia dall’Ottocento, di pari passo con l’emergere di una volontà e di un costume meno inumani e discriminanti. Fu allora ripreso e riproposto l’uso di invalide in francese, invalido in italiano, cui seguirono poi i più fortunati disabile dal 1869 e, in pieno Novecento, dagli anni Trenta, minorato, un aggettivo e sostantivo condannato da puristi, ma, per la sua stessa fortuna e diffusione, soggetto a usi pesantemente negativi e offensivi. Trent’anni dopo la stessa sorte doveva toccare a handicappato tratto dall’inglese, usato in due testi importanti: la legge 118, sulla eliminazione delle barriere edilizie, e la circolare del ministero dell’Istruzione, «sul più ampio inserimento degli alunni handicappati nelle scuole aperte a tutti gli allievi», cioè nella scuola dell’obbligo. Ma proprio il faticato e faticoso affermarsi di queste norme e il loro largo impatto resero rapidamente popolare la parola handicappato e, com’era avvenuto per minorato, aprirono la via a usi negativi e offensivi. Di qui, non solo in italiano, la ricerca di nuove espressioni più neutre, da portatore di handicap a diversamente abile, espressione concettualmente bizzarra dato che tutti siamo diversamente abili. E l’ansia di trovare nuove espressioni non è finita e si sono lanciati neologismi come diversabile e diversabilità.
È così che siamo arrivati al linguaggio politicamente corretto. Alcuni lo considerano una conquista, altri ne sottolineano l’ipocrisia, come nel caso della (s)fortunata formula diversamente abile.
Certamente c’è un margine di ipocrisia, fastidiosa a confronto del molto che resta da fare per eliminare le barriere e migliorare le condizioni di vita specifiche dei disabili. Tuttavia bisogna tenere presente che l’intero campo di espressioni è necessariamente in movimento sia nell’uso comune sia a livello specialistico internazionale, come mostra il succedersi di classificazioni e riclassificazioni: nel 1980 la classificazione Icidh, International Classification of Impairments Disabilities and Handicaps, dell’Organizzazione mondiale della sanità; dieci anni dopo la Icf, International Classification of Functioning, sempre dell’Oms, che ripensa la stessa nozione di salute e in questo quadro propone una riclassificazione delle diverse funzionalità e dei loro limiti; nel 2006 il documento, la Convenzione dell’assemblea Onu in cui emerge la difficoltà di trovare una buona definizione unitaria per tutelare i «diritti delle persone con disabilità».
Quando si pensa ai termini comunemente usati per la disabilità, vengono in mente soprattutto i limiti che ogni parola ha in sé. È qualcosa di inevitabile?
Esistono le parole giuste e come trovarle? In Italia, e non solo, siamo all’inizio di un lungo cammino nella riflessione scientifica, nelle procedure di comprensione e diagnosi e nella conquista della diffusione di un atteggiamento sociale che ci impegni al riconoscimento non solo teorico del pari diritto alla vita di ogni creatura umana e vivente. Non è un cammino facile. A mano a mano troveremo le parole giuste per capire e farci capire in una prospettiva che è profondamente nuova.
Spesso a essere sotto accusa per l’uso di formule scorrette e banalmente convenzionali è il giornalismo. In letteratura, invece, si usano talvolta espressioni molto crude che, se adoperate in altri contesti, sarebbero duramente condannate. Perché ai narratori è concessa maggiore libertà?
Perché devono aiutarci a capire le cose nella loro drammatica crudezza, diffidando di espressioni generiche, benintenzionate, magari, ma opache. Se nelle strade eleganti di New York o Roma o Tokyo si affollano barboni, mendicanti, disperati, non miglioriamo certo le cose se, descrivendo la situazione, li chiamiamo persone in condizione di disagio ambientale con riflessi psicosomatici. Sforziamoci di costruire condizioni di cultura ed economia in cui non siano possibili la marginalizzazione e reiezione di una parte delle persone. Le parole sono importanti, ma vengono, se non dopo, certo insieme alle cose e alla maturazione dell’impegno per la parità di diritti.