Limpida, intrigante edizione di “Vecchi tempi” di Harold Pinter”, regia di Pippo Di Marca, ai Teatri di Vita di Bologna
Proviamo a (ri)scoprire l’acqua calda, sia pur in chiave semantica, strutturale, linguisticamente sofisticata quindi sfuggente, provvisoria, ambigua. Ricordando a chi lo avesse dimenticato, tralasciato- o ne venisse per la prima volta a contatto- che tutto il teatro di Harold Pinter è artatamente (virtuosisticamente?) orchestrato sullo slittamento della parola, delle frasi, dei dialoghi (un tu-ed-io, raramente esteso alla coralità di più voci) – che mutano di senso, pregnanza, insinuazione secondo il variare delle tonalità interpretative: dalla divagazione all’intimazione, dal ‘tanto per dire’ all’ ‘inchiodare l’interlocutore al muro’.
A cosa mira, in genere, e per grandi linee, la produzione più rinomata (e rappresentata) dello scrittore e sceneggiatore fra i maggiori del Novecento? Da “Il compleanno” a “Il calapranzi”, da “Una specie di Alaska” a “Tradimenti”, sino all’estremo (struggente) capolavoro di “Cenere alle ceneri”? Probabilmente a quella raffinata arte iper.borghese (sostanzialmente british) che è l’elusione del ‘discorso’ e l’auto dominio delle soggettive emozioni, notomizzate da un autore ‘proletario’ per estrazione,e geneticamente ‘estraneo’ ad una ritualità di relazioni da cui si sente come ‘truffato’, sicuramente infastidito (qualche dubbio?Si rileggano ad esempio e con attenzione le alchemiche sceneggiature di Pinter per il cinema di Losey, a iniziare da “Il servo”).
Come si perviene all’arte del saper glissare, depistare, cacciar l’ ‘avversario’ fuori dalla pista della logica lineare? Attraverso una progressivo allontanamento (sfocamento) da una verità primaria (a noi ignota), che le vicende pinteriane- puntigliosamente agganciate ad un’esilità di accadimenti: una sorta di ‘non\trama’ o mnemonicamente smarrita- mirano a sfocare nell’indefinito inganno che (da Goldoni in poi?) è l’inattendibilità del ‘discorrere’ tra coniugi, familiari e comprimari. Afflitti comunemente da “leggeri”, “cronicizzati” malesseri, per convivenza damerina e coatta, da ‘rappresentare’ alla condivisa, classista ipocrisia di un certo status symbol. Tutto ciò per la normalità, per l’altissima media di un magmatico repertorio che va dal 1957 di “The room” sino alla invettive anti.imperialiste (statunitensi) che animarono la breve vecchiaia di Harold, stroncata da saettante, inesorabile malattia. Sottilmente, ma sostanzialmente diverso mi è sempre parso il caso di “Old times” (1971), tradotto nell’immediato italiano di “Vecchi tempi” sin dalla prima, tempestosa edizione di Luchino Visconti, rappresentata l’anno successivo all’Argentina di Roma, in aperto dissenso con quanto Pinter avesse chiesto all’imperioso regista (“un ring da pugilato al centro scena no e poi no…non è questo il modo, spicciolo e pedestre di alludere ai conflitti tra personaggi”…ma Visconti fece di testa sua).
Il cui nucleo evocativo non appare la fuga da una qualsiasi (indegna, impronunciabile, da rimuovere) “verità passata”, ma l’oggettiva perdita di essa, lo sforzo “vano, sincero, incongruo” che i tre protagonisti compiono nell’inutile tentativo di afferrarne un “attendibile straccio”: sino al punto da legittimare in chi assiste il sospetto che ciò di cui si ‘dibatte’ è frutto di fantasie oniriche, dislessie mentali, fascinose contorsioni di Pinter in una scommessa drammaturgica che rasenta – svagatamente, come in certo Schnitzler – la vorticosa (inestricabile) tecnica del “sogno nel sogno”
Un uomo e una donna vivono da soli in una casa solitaria vicino al mare e una sera aspettano a cena una vecchia amica di lei. Non si vedono da vent’anni. Con l’uomo di lei non si conoscono. Quando l’amica arriva si crea un triangolo apparentemente classico. In realtà è come se tutto il loro mondo, sia della coppia che dell’ospite, deflagrasse. Niente è più come prima. Nessuna cosa o impressione o ricordo è certa. Tutto è ambiguo, vagamente panico. Con spezie, profluvi di parole che suonano da perfide fandonie, miraggi sfocati, inattendibili o inventati come la ‘bella estate’ condivisa, anni prima, in una strepitosa villa di Taormina (ospiti dell’ipotetico marito dell’amica visitatrice).
Tutti mentono a se stessi e agli altri, in buona o cattiva fede non è dato sapere. Dunque “come se la loro vita, i loro ricordi ed esperienze empiriche fossero inconsistenti, improbabili, impossibili”. Tutto si sfarinasse e andasse in malora per bugie prive di movente (nemmeno il sadismo della menzogna) – e mancando del tutto “quell’ineffabile elemento dell’interagire che è forma, senso, credibilità, dicibilità.” L’epilogo, com’è ovvio, non scioglie un bel nulla, restando anzi beatamente (sonnacchiosamente) sospeso: alla pari di queste esistenze sconfinate in stand-by dalla “vita che si nega a se stessa” (per ripicca o per empietà?). In una stupita e instupidita sciarada di dettagli e particolari (al passato) che non hanno soluzione. Di qui pause estenuanti , lapsus e qui pro quo, evocazioni di conversazione simili a flashback e flashforward cinematografici. A riparo di una angoscia diffusa che toglie ai personaggi il senso della consistenza umana e letteraria, il piacere stesso se almeno fra ‘due di loro’ sia intercorso un rapporto autentico di amore o di odio, coniugale o adulterino, saffico o cos’altro ancora. sopraffatti dallo scorrere del tempo, intrappolati nella stanza dove si svolge il dramma.
Rilevante, spoglia, attendibile la regia di Di Marca, che (coadiuvato da ottimi attori) scandisce ‘neutrali didascalie d’autore’ come voce stentorea e fuori campo. Entro le coordinate di una “blanda” commedia di conversazione che contorna ma non invade il thriller dell’anima, e di cui nessuno sembra darsi afflizione: men che mai la ‘leggerezza’ adamantina e volutamente anodina di una messinscena nuda, didattica, scarnificata. Dunque senza fronzoli o allegorie cerebral-iconografiche che snaturerebbero questa disarmante capacità di immergere persone e cose come fossero ibernati e ‘in vitro’- in una sorta di acquario essiccato di sentimenti, affettività, retaggio di essi. Profezie d’autore? Sembra che la struttura ormai opzionale, mercificata, mistificata del relazionarsi tra umani dia ragione a Pinter. E a Di Marca, che ne è emissario.
****
“Vecchi tempi” – di Harold Pinter (Premio Nobel per la Letteratura 2005)
Traduzione di Alessandra Serra Regia Pippo Di Marca Con: Fabrizio Croci Francesca Fava Anna Paola Vellaccio
Scene e costumi Laboratorio Florian Metateatro, assistente alla regia Diletta Buschi, direttrice di scena Marilisa D’Amico, luci Renato Barattucci, registrazioni audio Globster, grafica Antonio Stella Organizzazione Ilaria Palmisano, produzione Giulia Basel e Massimo Vellaccio
Teatri di Vita, Bologna