BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Una fragile costruzione della realtà (“Madame Bovary” da Flaubert. Con Lucia Lavia)

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All’inizio la storia appare come il frusciare ossessivo di uno dei nastri di Krapp. Tutto è svanito. Emma racconta al passato, infilando un abito bianco. La voce è fuori campo, e riverbera fantasmatica contro un fondale dalla luce turchese. La luce muterà senza posa, seguendo i colori psicologici della vita di Emma e quelli dei suoi abiti, dal rosso al grigio ferro; come portata dalle musiche e dai silenzi, o dal fragore di un vento metafisico da spoksonaten strinberghiana.

Il nodo scorsoio comincia a stringersi già nell’infanzia, nutrendosi della costruzione di una realtà mediata, della ricerca di un punto di fuga dal grigiore della campagna, dalla tristezza oppressiva di un padre che si sente “come una casa dopo il trasloco”. Inizia immaginando dei peccati da raccontare al confessore e con le mille immagini lette nei romanzi, che instillano in Emma la vividezza di ciò che resta chiuso fuori dalla sua vita: il mare, l’aria, la possibilità di camminare sulla neve, di andare a caccia di lupi (privilegio riservato agli uomini),  la libertà, l’avventura, la leggerezza e la passione. Altri mondi, lontani dal suo così stretto e coperto di muffe, così misero e privo di aperture sul possibile. Tale è la smania di cambiare orizzonte che persino Charles Bovary, medico mediocre, consapevole e compiaciuto della propria pochezza, le appare come circonfuso di luce, di speranza, il primo gradino di un’ascesa sociale desiderata fino allo spasimo.

Presa com’è dalla passione dei sensi che si è negli anni nutrita di sfrenatezze letterarie, Emma vorrebbe sposarsi di notte, perchè il suo fuoco interiore abbia la possibilità congiungersi con quello dei fuochi accesi per i festeggiamenti, producendo un effetto estetico di perturbante romanticismo. E’ invece costretta dal padre a nozze diurne, volgari come tutte le altre, rese appiccicose dall’eccesso di cibo, dal sudore degli invitati, dalle battute pesantemente allusive. E, dopo tutto lo squallore del matrimonio, anziché l’ardore perverso di un amante alla Lord Byron, la attendono le tiepide, troppo educate e goffe effusioni di Charles, e la casa di Tostes, buia, umida, “dal tetto malconcio”.

L’invito a un ballo nel castello di La Vaubyessard, presso il Marchese di Andervilliers, arriva a scompaginare le giornate metodiche di Charles e a riaccendere le speranze di Emma. L’abito magenta della ragazza risplende nelle danze, vortica con grazia e trasporto, senza fine, dilatando il tempo, come nella Recherche proustiana cerca di fare con ostinazione il Barone Charlus, per allontanare il senso di vacuità e di morte. Emma è una delle farfalle estive ammirate in giardino dall’ingegner Pirobutirro della Cognizione del dolore. Presa dal volo fascinoso e svagato, diventa fata, animula, strega, finchè l’incanto non si rompe, spezzando progressivamente i movimenti della donna fino a una dissonanza disperata che è già nostalgia e presagio della fine, e che Lucia Lavia costruisce ed evidenzia con una performance fisica ipnotica di rara sensibilità e potenza.

Le acque si richiudono, in testa torna il ronzio circolare dei pensieri, molesto e livoroso. Ciò che segue fa sentire Emma sempre più imprigionata entro i claustrali pannelli reticolati che scorrono sulla scena: una gravidanza indesiderata, una figlia dalle “manine brutte” (desolata, umanissima marionetta, manovrata da Roberta Zanardo), respinta ma all’occorrenza utilizzata per manipolatorie rappresentazioni di dedizione materno ad uso e consumo dell’amante di turno. Proprio la sottesa anaffettività di Emma porta alla luce la sua dinamica comportamentale di base: non c’è traccia in lei di una reale sensibilità, soltanto di una veemente, a volte melodrammatica e scoperta rappresentazione di ciò che secondo schemi assimilati e ormai sclerotici dovrebbe essere la sensibilità. E va detto che Lucia Lavia è perfetta e trascinante nel modellarsi sulla figura di Emma mostrandone nello stesso tempo, dall’esterno, la cieca meschinità e l’opportunismo avventato.

La morsa si stringe nella seconda parte, con il trasferimento a Yonville. L’inquietudine della donna cresce ogni giorno, arrivano gli amanti: Rodolphe e il giovane Léon. Il turbamento dei sensi toglie ulteriore lucidità a Emma, che prima, per vanità frustrata, spinge il marito a operare il piede caprino del povero Hippolyte (la scena dell’intervento sprigiona una lucidità fredda e crudele, esemplare nella condanna della sostanziale bêtise di ogni velleità di progresso priva di basi e di coscienza, e sottilmente perturbante nell’evocare Bacon e forse l’ultimo Kubrick), poi cade vittima del negoziante/usurario Lheureux, un Omino di Burro insinuante e calcolatore, un Mefistofele o Mackie Messer, che corrompe le anime attraverso la merce e, in principio, blandisce Emma con il regalo di una collana simile a un cappio.

E’ in questo modo che Emma scivola su un piano sempre più inclinato. Fra debiti crescenti, delusioni sentimentali che le scuciono i nessi logici e la sgualciscono, anche negli abiti e nelle maniere, che la rendono incongruamente estroflessa, sempre più confusa fra sentimento e messa in scena del sentimento, dedita all’autoerotismo in attesa di Léon. Sensuali drappi rossi diventano sudari verticali, la tenebra si addensa intorno, cola goccia a goccia dentro la mente della donna attraverso un’asse spezzata. Ci troviamo dalle parti del Goya più oscuro, della severità necrofila dell’Escorial. L’angoscia senza soluzione spinge Emma a correre in cerchio freneticamente, come un animale impazzito. L’allestimento termina con un’immagine di addolorata, quasi immobile, eleganza. Emma, in piedi, con indosso solo la biancheria (come all’inizio, gli estremi narrativi si ricongiungono), si versa in bocca lentamente, più volte, l’arsenico che le illividisce il volto e che la ucciderà. Una nube dorata di veleno si espande nell’aria, avvolgendola e velandola.

“Madame Bovary” di Gustave Flaubert

riscrittura di Letizia Russo
regia Andrea Baracco
scene e costumi Marta Crisolini Malatesta
luci Pietro Sperduti
musiche Giacomo Vezzani 

Con Lucia Lavia, Elisa Di Eusanio, Laurence Mazzoni, Woody Neri, Gabriele Portoghese, Mauro Conte, Xhulio Petushi, Roberta Zanardo
Produzione KHORA.Teatro
Al Teatro Niccolini di Firenze  (già all’Eliseo di Roma)


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