Un anno fa, nel presentare la precedente edizione di questo rapporto, definivamo “impressionante” ma “non sorprendente” la quantità di articoli e di servizi televisivi che i media italiani avevano dedicato all’immigrazione nel corso del 2015: una crescita da 70 al 180 per cento nella carta stampata e fino al 400 per cento nelle tv. “Non sorprendente” perché nel corso di quell’anno si erano verificati alcuni eventi che, in base agli ordinari “criteri di notiziabilità”, erano di rilevanza assoluta ed era dunque fisiologico che avessero prodotto un gran numero di articoli e di servizi: il naufragio del 18 aprile (a pochi mesi dalla sospensione dell’operazione Mare Nostrum) con 800 vittime, e la morte del piccolo Aylan Kurdi con quella sequenza fotografica che commosse il mondo.
Nel 2016 non si sono verificati eventi di quella portata eppure – ci dice l’analisi dell’Osservatorio di Pavia – quei numeri impressionanti si sono sostanzialmente ripetuti: una leggera flessione quanto ai servizi televisivi, un ulteriore incremento nei titoli delle prime pagine dei quotidiani nazionali. Il dato quantitativo, insomma, si è stabilizzato: si parla molto più di prima dell’immigrazione, anche in assenza di notizie clamorose. Se negli anni passati se ne parlava in occasione di tragedie del mare, di gravi fatti di cronaca nera, dei ciclici aumenti degli sbarchi (le “invasioni”) e, spesso in chiave emergenziale, in coincidenza con le campagne elettorali, adesso se ne parla con continuità, quasi tutti i giorni, e vi si arriva attraverso percorsi un tempo praticati, raramente, da pochi specialisti del settore: dalle analisi sull’organizzazione del lavoro a quelle sull’equilibrio del sistema pensionistico, dagli studi sulla nuova imprenditoria ai rimedi per frenare lo spopolamento delle zone interne. Il tema dell’immigrazione è entrato, in modo strutturale e pervasivo, nel sistema dell’informazione.
L’approdo auspicato da anni – far uscire l’emigrazione dall’eterna emergenza e considerarla finalmente una delle ordinarie tematiche sociali del nostro Paese e del nostro tempo – è stato dunque raggiunto dai media italiani? O è stato il tema a espandersi in una misura tale da imporsi ai media, anche quelli che lo snobbavano considerandolo di scarsissimo appeal per i loro lettori e ascoltatori? È difficile dare una risposta netta. Di certo i due processi non sono alternativi tra loro.
L’impressione è che si siano verificati entrambi. L’immigrazione, attraverso la sua drammatica forza autonoma, si è imposta come tema centrale dell’agenda europea e, contemporaneamente, è cresciuto il numero dei professionisti che hanno deciso di approfondirlo. Ipotesi, quest’ultima, che avanziamo anche alla luce della grande partecipazione dei colleghi alle iniziative formative che abbiamo curato in questi dodici mesi.
A confermare l’avvenuto “approdo alla normalità” il calo della “componente ansiogena” delle notizie e il comparire, nei toni e negli stili delle notizie sull’immigrazione, di modelli tipici dell’informazione politica. Se negli anni scorsi i media più ostili all’accoglienza abbondavano di allarmi, adesso utilizzano lo strumento dell’ironia, e a volte del sarcasmo. È più difficile brandire un tema diventato “normale” e si preferisce, quando è possibile, liquidarlo. In un certo senso, mentre se ne vorrebbe contestare la legittimità, si conferma attraverso il linguaggio il pieno ingresso dell’immigrazione nell’agenda politica.
Ma la conferma più chiara viene da alcuni dei dati illustrati in questo rapporto. Gli analisti dell’Osservatorio di Pavia hanno rilevato che nei servizi sull’immigrazione mandati in onda nel corso del 2016 dai tg nella fascia prime time, i politici italiani sono presenti una volta ogni tre e quelli europei una volta ogni cinque. Complessivamente, i politici sono dunque presenti, quando si parla di immigrazione, in un servizio su due. Una percentuale che cala drasticamente quando si esamina la presenza di esponenti politici in servizi dedicati ad altre tematiche pure di grande rilevanza sociale.
Inoltre, quanto alla carta stampata, si è constatato che nella metà dei titoli dedicati all’immigrazione si fa riferimento esplicito a esponenti politici italiani e/o europei. Come ben sanno i colleghi che ci hanno seguito in questi anni, il nostro “chiodo fisso”, l’assunto metodologico che ci guida, è chiarire che le regole della Carta di Roma non costituiscono un mansionario per giornalisti “buoni” e “politicamente corretti”. Il nostro codice deontologico non fa altro che riferire a un tema particolarmente complesso e delicato qual è l’immigrazione le regole deontologiche generali. Su questo assunto si fonda la convinzione che, sperimentandole sull’immigrazione, possiamo migliorare e affinare le nostre capacità professionali. Proprio come un chirurgo che migliora le tecniche operatorie intervenendo sul corpo dei pazienti più fragili.
I dati sulla crescente presenza di esponenti politici nei servizi dedicati all’immigrazione, mentre rappresentano una formidabile conferma della “normalizzazione” del tema, sono anche una conferma della tendenza del nostro sistema informativo ad assecondare l’agenda politica. Un’agenda nella quale l’immigrazione compare come terreno di scontro. Abbiamo preso atto, finalmente, del fatto che era ora di smetterla di usare toni ansiogeni ed emergenziali per un fenomeno che dura da più di vent’anni, ma la politica ancora non l’ha fatto. Lo scontro si riaccende in seguito a eventi connessi per larga parte all’accoglienza. Gli sbarchi sono diventati “normali”, ma non lo è ancora quel che succede un attimo dopo. Raccontiamo nei dettagli che “sono arrivati”, ma continuiamo a spiegare molto poco perché “sono partiti”. Teniamo la conta dei migranti e dei rifugiati vittime del Mediterraneo e riferiamo di indagini e processi che hanno per protagonisti trafficanti di esseri umani, ma non raccontiamo con altrettanta attenzione i canali alternativi sicuri e legali già attivi, dal reinsediamento ai corridoi umanitari.
La possibilità di un’informazione completa sull’immigrazione – un’informazione che, tra l’altro, sappia spiegare a lettori e telespettatori non solo gli effetti degli arrivi, ma anche le cause delle partenze e delle fughe – continua e entrare in conflitto con una politica che non riesce a trovare un orizzonte condiviso e parla (e litiga) con un’intensità tale da togliere spazio alla voce dei diretti interessati. E che, ancora, sostanzialmente impone la sua agenda, interferendo anche nei percorsi virtuosi. Diminuisce l’utilizzo di un termine giuridicamente inappropriato come “clandestino”, ma si enfatizza lo status di rifugiato dell’autore di un reato. Anche quando non lo è, come nel caso delle violenze contro le donne compiute la notte di Capodanno a Colonia. Un quadro che conferma la necessità di un sistema di informazione che segua percorsi autonomi, che vada a fondo nelle notizie, che fornisca ai cittadini un quadro completo dei problemi in modo che possano formarsi un giudizio. Come si vede, partendo dall’immigrazione si arriva a conclusioni che riguardano tutti i giornalisti, anche quelli che si occupano di tutt’altro.
La “normalizzazione” ha determinato anche un abbassamento dei toni. Questo Rapporto ci dice che l’hate speech, il discorso d’odio, non riguarda in modo diretto il sistema dei media tradizionali. Non “produciamo” hate speech e, nella generalità dei casi, evitiamo di diventarne veicolo. Facciamo, con una certa efficacia, da filtro. Una buona notizia. Tuttavia dovremmo riflettere sul fatto che l’hate speech, quello che dilaga nei social network, trova alimento nella cattiva informazione. Ed è questa la ragione per cui non possiamo sentirci innocenti.
La necessità di una corretta informazione come antidoto all’hate speech è il contributo che abbiamo ritenuto di portare ai lavori della Commissione contro l’intolleranza e l’odio, la Commissione Joe Cox, istituita su iniziativa della presidente della Camera Laura Boldrini. Consideriamo il fatto della sua istituzione il primo tentativo di ragionare assieme, anche sulle modalità di formazione dell’agenda, tra politica, associazioni umanitarie e professionisti della comunicazione. Un confronto utile a definire senza equivoci i reciproci ambiti. Ma anche necessario al sistema dell’informazione che ha nei social network dei formidabili alleati e delle insidiose serpi in seno. Se, infatti, per un verso i social consentono di diffondere in una misura un tempo impensabile i contenuti informativi, per altro verso agiscono come organi di informazione autonomi, privi di un direttore responsabile e animati da una moltitudine di redattori, alcuni dei quali totalmente irresponsabili, che diffondono notizie false che in alcuni casi configurano autentici incitamenti all’odio razziale. Il filtro dei media professionali non è da solo sufficiente in assenza di regole certe che impongano ai social di attenersi alle norme dell’ordinamento giuridico a cui sono sottoposti i loro utenti, i cittadini dei Paesi in cui operano. Questo è il terreno nel quale gli operatori dell’informazione e la politica devono, con urgenza, incontrarsi.