E’ bene partire dai nomi. Quelli di Giuseppe Demasi 26 anni, Angelo Laurino 43anni, Roberto Scola 32 anni, Rosario Rodinò 26 anni, Rocco Marzo 54 anni, Bruno Santino26 anni e Antonio Schiavone 36 anni. Ogni nome, una vita, una famiglia, svariati figli, altrettante vedove, un unico orrore. Sono loro i 7 martiri involontari di quella che chiamavano la “fabbrica dei ragazzi“, uno stabilimento in cui il 95% degli operai aveva meno di 30 anni. Una definizione, fabbrica dei ragazzi, che, astratta dal contesto, potrebbe addirittura assumere una connotazione moderna, da start-up, ma che nasconde una tragedia annunciata, un sacrificio a cui sono stati condannati i più giovani utilizzati come carne da cannone .
Ci sono voluti 9 anni e 5 diverse sentenze per mettere fine (processuale) alla vicenda del rogo della ThyssenKrupp di Torino, lo stabilimento dove la notte del 6 dicembre del 2007 in un incendio nella linea 5 morirono arsi vivi 7 operai. La Cassazione ha depositato le motivazioni di una sentenza che condanna in modo netto e inequivocabile 6 dirigenti dell’acciaieria schiacciati da una “colpa imponente“.
Harald Espenhahn amministratore delegato, condannato a 9 anni e 8 mesi di carcere; Gerald Priegnitz e Marco Pucci, componenti del cda condannati a 6 anni e 10 mesi; Daniele Moroni dirigente con competenza nella pianificazione degli investimenti in materia di sicurezza antincendio condannato a 7 anni e 6 mesi; Raffaele Salerno Direttore dello stabilimento condannato a 7 anni e 6 mesi; Cosimo Cafueri responsabile del Servizio di prevenzione e protezione dello stabilimento condannato a 6 anni e 8 mesi di carcere.
Colpevoli di omicidio colposo plurimo, incendio colposo e omissione dolosa di cautele per la prevenzione degli infortuni.
La fabbrica che dirigevano, ThyssenKrupp di Torino, era in via di smantellamento. In vista della chiusura si smise di investire in sicurezza e in manutenzione, senza però interrompere la produzione. Iniziarono a verificarsi una serie di incidenti come piccoli incendi, domati a fatica dalle squadre di giovani operai senza una formazione adeguata e con a disposizione presidi antincendio fatiscenti e malfunzionanti. La testimonianza al processo resa da Antonio Boccuzzi, l’unico operaio del reparto a salvarsi dal rogo, è chiara: “quella sera si sviluppò un incendio molto, molto piccolo. Ne avevamo visti di peggiori. Provai a spegnere le fiamme alte circa dieci quindici centimetri con un estintore, ma era praticamente vuoto. Lo lanciai via stizzito, andai con Bruno Santino e Angelo Laurino (rimasti uccisi nel rogo, ndr) a recuperare una manichetta, la trasportammo fino all’innesto da cui doveva uscire l’acqua, io tenevo in mano l’innesto, a quattro-cinque metri dalla zona dell’incendio. Lo collegai, controllai che l’acqua uscisse e riempisse la manichetta, poi tirai su la testa per vedere se l’acqua usciva dalla lancia, tenuta in mano da Roberto Scola, ma in quel momento ci fu un’esplosione e le fiamme divennero altissime“.
Quello che si scatenò fu un vero inferno. Dalla rottura di un flessibile si sprigionò uno spruzzo altissimo di olio che prese immediatamente fuoco generando un “flash fire“, una nuvola di fuoco, come un idrante che schizza tutto attorno olio in fiamme che si attacca ovunque e avviluppa. Gli operai diventarono delle torce umane intrise d’olio in fiamme. “una grossa mano di fuoco, un’onda anomala che ricadde sui ragazzi e li inghiottì” ricorda Boccuzzi: “vidi Roberto Scola uscire dalle fiamme, lo riconobbi soltanto dal modo in cui si muoveva: lui mi chiamava, io gli gridai di buttarsi per terra. Quando cadde aveva indosso solo brandelli di vestiti e gli erano rimasti pochi capelli. Ricordo che cercando di spegnere le fiamme sul suo corpo non riuscii a spegnerle sulle scarpe che erano intrise di olio. Ricordo nitidamente le piaghe sul suo corpo”.
Una scena infernale, in cui alcuni operai continuavano ad agitarsi senza nemmeno provare più dolore perché le fiamme avevano mangiato le terminazioni nervose, erano scheletri che camminavano. Morirono tutti nel giro di qualche settimana.
Alla base della strage una catena di responsabilità stratificate e condivise, hanno detto i giudici, che compongono una “colpa imponente, tanto per la consapevolezza che gli imputati avevano maturato del tragico evento che poi ebbe a realizzarsi, sia per la pluralità e per la reiterazione delle condotte antidoverose riferite a ciascuno di essi che, sinergicamente, avevano confluito nel determinare all’interno dell’opificio di Torino una situazione di attuale e latente pericoloper la vita e per la integrità fisica dei lavoratori“.
Dentro la fabbrica si rischiava la vita e i dirigenti lo sapevano bene. Sul grado di consapevolezza del rischio si è a lungo dibattuto durante questo processo che è diventato un “caso scuola” nella giurisprudenza a cui faranno riferimento tante altre sentenze.
In primo grado l’amministratore delegato era stato condannato per omicidio volontario anziché colposo, perché gli era stato contestato il “dolo eventuale“, cioè la consapevolezza che abbassando i criteri di sicurezza si sarebbe potuto verificare un incidente e che il rischio andava comunque corso. Valutazione ribaltata in appello (e poi confermata dalle due pronunce della Cassazione), che invece ha optato per tutti gli imputati per la “colpa cosciente“, cioè riconoscendo agli imputati il convincimento che, nonostante le condotte omissive in termini di sicurezza, nessun incidente si sarebbe verificato.
Un passaggio decisivo, che ha permesso la derubricazione dell’imputazione da omicidio volontario a omicidio colposo e che naturalmente ha prodotto pene molto più lievi. Un duro colpo per i parenti delle vittime che, processo dopo processo, hanno visto assottigliarsi le pene e hanno temuto un nuovo colpo di spugna quando il sostituto procuratore della Cassazione, fra lo stupore generale, lo scorso maggio ha richiesto un nuovo rinvio ai giudici di appello per far limare nuovamente le pene riconoscendo agli imputati altre attenuanti.
Richieste respinte dalla Cassazione che ha messo fine alla vicenda. Gli imputati italiani si sono consegnati al carcere, Espenhahn, l’amministratore delegato tedesco, dovrà vedere la sua pena ricalcolata in base al diritto del suo paese che prevede pene più miti per quel tipo di reato. Alla fine è probabile che proprio lui, riconosciuto dalla Corte come “massimo autore delle violazioni antinfortunistiche che avevano causato gli eventi di incendio e morte” sarà quello che sconterà la pena più lieve.
Questo processo però mantiene intatta la sua importanza, perché infligge, pur dopo 9 lunghissimi anni, le pene più severe mai date per un incidente sul lavoro e squarcia il campo, speriamo per sempre, sulle responsabilità di quei capitani d’industria che in molte situazioni, corsari di diritti e denari, si sono resi protagonisti di capitoli nerissimi della nostra storia industriale.