Le bombe continuano a esplodere, intorno a noi. A Istanbul, sabato 10 dicembre, un doppio attentato ha provocato 38 vittime tra le forze dell’ordine. Al Cairo, domenica 11 dicembre, dodici chili di tritolo hanno ucciso 25 persone (tra cui 6 bambini), cristiani copti convenuti nel complesso della cattedrale di San Marco (la più antica chiesa d’Africa e la sede del Papa di Alessandria), dopo che altre due esplosioni, venerdì scorso, avevano ucciso 6 poliziotti. Queste bombe stentano a farsi strada fino alle prime pagine dei quotidiani, scivolano nella seconda metà dei tg: il Mediterraneo in questi casi marca una distanza immensa, neanche fosse un oceano.
Eppure noi italiani dovremmo capire meglio di chiunque altro. Le bombe hanno segnato, sfregiato, deviato al nostra storia: prima fra tutte quella esplosa 47 anni fa nel salone centrale della Banca Nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana, a Milano. Uccise 17 persone e ne ferì un centinaio.
Era il 12 dicembre 1969. La guerra era finita da 24 anni appena: in molti, allora, potevano ricordare il terrore e l’odore di carne bruciata del tempo dei bombardamenti aerei. La nostra Repubblica era una creatura giovanissima, appena maggiorenne, ancora incerta sulle sue gambe. Nel 1969, il corpo dello Stato, dalla pubblica amministrazione agli apparati di sicurezza, alla magistratura, era ancora profondamente innervato di personale formatosi nel ventennio fascista: il Questore di Milano Marcello Guida, per dirne uno, era stato responsabile del confino di Ventotene, dov’erano stati imprigionati i padri dell’ideale europeista, Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, insieme a quell’«elemento pericolosissimo per l’ordine nazionale» (fascista) che fu Sandro Pertini, all’epoca della strage Presidente della Camera dei Deputati. Quell’Italia giovanissima ma appesantita da vecchi rottami traballava perché si trovava proprio in mezzo al potente campo di tensione della Guerra Fredda. Accanto all’avanzatissima Costituzione promulgata nel 1948, faceva sentire il suo peso la “Costituzione materiale” anticomunista. L’Italia delle proteste sessantottine e degli operai che riempivano le strade durante gli scioperi dell’“Autunno caldo” non doveva continuare a slittare verso sinistra.
Per questo scoppiò la bomba di piazza Fontana, per questo l’inchiesta sulla strage venne dirottata verso una falsa pista anarchica, ad opera degli Uffici politici di Milano e di Roma, dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno e del Sid, il servizio segreto dell’epoca.
La verità si fece faticosamente strada, grazie a un’inchiesta parallela maturata in Veneto, la cosiddetta “pista nera” (rivelatasi poi quella giusta), nata dalle dichiarazioni spontanee di un giovane professore, scioccato dalle confidenze dell’amico ed ex compagno di collegio Giovanni Ventura, il quale si vantava delle azioni compiute con il sodale Franco Freda (entrambi neonazisti).
La bomba aprì una voragine nera nel salone della banca. Questa voragine inghiottì 17 vite, a cui si aggiunse nella notte tra il 15 e il 16 dicembre la diciottesima vittima innocente, il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli. Inghiottì, infine, la giustizia. Gli esecutori e gli organizzatori della strage, infatti, non sono mai stati condannati. Restano, isolate, due condanne passate in giudicato: i funzionari del Sid Gianadelio Maletti e Labruna, per favoreggiamento di inquisiti neofascisti.
Faticosamente recuperata dal cratere, ci resta invece la verità storica su quell’evento: la strage è ascrivibile all’organizzazione terroristica di estrema destra Ordine Nuovo. E’ certo che alla preparazione dell’attentato parteciparono Franco Freda e Giovanni Ventura: lo suggella l’ultima sentenza pronunciata in Cassazione nel 2005, sebbene ribadisca che è impossibile condannarli, perché già assolti in via definitiva in un processo precedente. Certa la responsabilità di una parte importante degli apparati di sicurezza nei depistaggi.
Potete trovare qui una sintesi del complicatissimo iter processuale, e qui la copia digitale di tutte le sentenze pronunciate. Piazza Fontana appartiene alla storia e alla ricerca, che può continuare a studiarla per precisare i contorni storico-politici dell’evento, le sue innumerevoli implicazioni e conseguenze, attraverso un’ampia mole di documenti, molti dei quali provengono dalle istruttorie e dai processi susseguitesi nel corso di 36 anni. Questi documenti sono i materiali di costruzione per consolidare quanto è stato sottratto con fatica ai depistaggi e continuare nella ricomposizione del quadro. Per questo, per commemorare l’evento, a Milano, presso la Casa della Memoria (via Confalonieri 14, MM2 Porta Garibaldi/MM5 Isola) è in programma un evento che si chiama “Mattoni per ricostruire”. Perché la consapevolezza non sbiadisca con l’invecchiare dei testimoni, ma cresca e si rafforzi attraverso lo studio di chi è venuto dopo. L’incontro è l’occasione per ripercorrere la storia della strage e insieme presentare il lavoro di digitalizzazione e riordino dell’intero corpus delle carte dell’ultimo ciclo processuale, celebrato presso la Corte d’Assise di Milano (dopo la digitalizzazione dell’intero corpus delle carte catanzaresi), all’interno di un grande progetto “Terrorismi e mafie: una storia ancora da scrivere” – coordinato dall’Archivio Flamigni – finalizzato a censire, riordinare e rendere accessibile con maggiore facilità un prezioso patrimonio di atti processuali legati a gravi delitti di mafia e terrorismo in tutta Italia.
Non dimentichiamoci la storia di cui siamo figli e nipoti. E non restiamo sordi all’eco dei boati che giungono dalle altre sponde del Mediterraneo.