“Scrivere di femminicidi rispettando le donne”. Il comunicato dell’associazione Giulia

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Giulia da sempre, cioè da che esiste, riflette sul femminicidio come emergenza sociale e per la sua carica simbolica di prevaricazione violenta d’un genere sull’altro. L’ha messo in scena (Desdemona e le altre), l’ha fotografato (Chiamala violenza, non amore), ha analizzato il linguaggio, ne ha fatto argomento di molti corsi di aggiornamento professionale per giornalisti. Compiendo a fatica qualche utile passo avanti; ma, come spesso accade quando si lotta contro pregiudizi radicati, si son fatti due passi avanti e uno indietro. Perché alcuni colleghi hanno capito e condiviso, altri no oppure hanno trovato più “comodo” utilizzare nelle loro cronache descrizioni morbose, giudizi stereotipati, privilegiando il colpevole anziché la vittima. Troppi errori e offese impuniti, tanto da suscitare una diffusa e sacrosanta indignazione che si è tradotta, in questi giorni, in un appello all’Ordine dei giornalisti che sta galoppando in rete: intervenite – scrivono le donne di Rebel Network in una lettera aperta – sulle parole con cui certi cronisti condannano le vittime e giustificano i carnefici in nome della “passione”.
Quindi è giusto alzare la voce, come giuste sono state le manifestazioni cui anche Giulia ha partecipato: sono pressioni che dall’esterno rafforzano chi lotta entro la categoria. Al prossimo Consiglio nazionale, dal 13 dicembre, le consigliere chiederanno all’Ordine interventi per monitorare, per informare e per ammonire i colleghi contro un uso distorto di termini e commenti nel femminicidio. Iniziative concrete per mettere finalmente in moto un cambiamento culturale.
Invece Giulia non condivide l’appello all’Ordine perché stili l’ennesima carta a tutela “del rispetto della dignità delle donne” sulla falsariga della Carta di Treviso in difesa dei minori. Perché le donne non sono una categoria da proteggere con apposito codice. Perché convincere sarà più laborioso ma certamente è più duraturo del reprimere. Perché l’Ordine ha già unificato tutte le diverse “carte” nel Testo unico dei doveri del giornalista, lasciando come unica Carta deontologica appunto quella di Treviso. Perché gli strumenti esistenti già consentono procedimenti sanzionatori (ad esempio contro l’uso del termine baby-squillo). Perché i corsi d’aggiornamento, obbligatori per legge, che Giulia (ma non solo) ha tenuto a decine su linguaggio e stereotipi, stanno diffondendo consapevolezza e consentono il superamento di arcaismi culturali.
Da qui Giulia assume per sé e chiede anche alle colleghe dell’Ordine l’impegno ad intervenire presso il Cnog perché, sui racconti di femminicidi e violenze, studi linee guida e sostenga apposite iniziative nel monitoraggio delle pubblicazioni e nell’aggiornamento professionale dei giornalisti.


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