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Repubblica, sconfitto sul referendum, ora lancia “Campo progressista” di Pisapia, il pronto soccorso del Pd

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Non una parola sulla crisi economica e sociale, non un programma di rinnovamento. Solo scadente politichese

Di Alessandro Cardulli

Carlo De Benedetti, l’editore di Repubblica, Mario Calabresi, il direttore, Eugenio Scalfari, il fondatore, editorialista principe, non potevano far buon viso a cattiva sorte. Dopo la virata renziana dell’editore il giornale sempre più visibilmente era diventato un foglio di appoggio al premier. In particolare nella campagna referendaria, prima timidamente poi in modo netto, il quotidiano di Largo Fochetti si è schierato per il Sì. In modo subdolo, certo. Annunciando che il giornale era equidistante, un articolo di un esponente del No e uno del Sì. Sapendo bene però che se il 90% della cronaca relativa al referendum è un elogio della bontà della riforma il gioco è fatto. Bastava leggere le rubriche di Corrado Augias e di Michele Serra per capire dove e come si collocava il quotidiano. Una linea che è stata clamorosamente sconfitta. Il voto di popolo, anche di lettori di Repubblica, come sa bene il direttore, ha dato una lezione al grande quotidiano, punta di diamante del gruppo editoriale cui era stato affidato il compito di tirare la volata a Renzi Matteo. L’altra testata del gruppo, La Stampa, direttore Maurizio Molinari, è rimasta immune. Nella notte del referendum, illustrando la prima pagina del suo giornale, ha detto che il “No” era il frutto del disagio sociale e che questo era il grande problema del paese, che la politica renziana non aveva affrontato.

L’intervista all’ex sindaco Pisapia, certo ben vista da editore e ambienti economici milanesi

Il direttore Calabresi non poteva accettare, senza alcuna reazione, la sconfitta del “Sì”, sconfitta anche della linea del suo giornale. Ha scritto qualche editoriale, uno in particolare, titolo: “No alla resa dei conti sulla pelle degli italiani”. Figuratevi, certo. Ma chi ha “smacchiato”, direbbe Bersani, la “pelle degli italiani” è stato proprio colui che Repubblica ha sostenuto. Ora, non sapendo a che santo votarsi, ha scelto Giuliano Pisapia e lancia in grande stile una intervista, realizzata da una “penna” del quotidiano, Sebastiano Messina, certo ben vista da De Benedetti e un certo mondo degli affari milanese. O meglio, rilancia, perché non è una novità che l’ex sindaco di Milano si era schierato per il sì, aveva riunito un gruppetto di amici per lanciare un nuovo soggetto politico, progetto molto ambizioso. Gli ha dato anche un nome, “Campo Progressista”. Insieme a lui qualche dissidente di Sinistra italiana, di Sel, quelli che, Migliore in testa, sono già passati al Pd, ora pare che anche Gianni Cuperlo partecipi a una iniziativa che si terrà a metà dicembre, qualche sindaco, quello di Bologna, Merola del Pd, Zedda, di Cagliari, che lascia Sel.

Domande teleguidate con le risposte già note in partenza. Un vecchio trucco

L’intervista è di quelle teleguidate, chi fa le domande conosce già le risposte. Un vecchio trucco di giornalisti con la pelle dura. Dice Pisapia che anche il voto sul referendum mostra che in quel 60% che ha detto No ci sono anche “tanti elettori di sinistra che invocano l’unità del centrosinistra e sono pronti a una coalizione che abbia questo segno”. Bontà sua riconosce, a differenza di Renzi e dei renziadi, che il 40% del Sì contiene anche voti del centrodestra ma dà modo a chi lo intervista di arrivare al sodo. “Già – puntualizza Messina – ma al momento non c’è. Oggi Renzi potrebbe coalizzarsi solo con il Nuovo Centrodestra di Alfano, a giudicare da quello che accade alla sua sinistra. A meno che nasca un nuovo soggetto politico, raccogliendo l’eredità di quei sindaci arancione di cui lei era l’esponente numero uno”. E ci pensa Pisapia a fornire la ricetta: “Questo è il momento della verità – risponde – I cittadini vogliono che ci sia un Parlamento che garantisca la governabilità, dove le mediazioni avvengano tra forze politiche che si riconoscono negli stessi valori e negli stessi principi. Oggi non è così, perché siamo in uno stato di necessità e non c’è una maggioranza alternativa a questa. Però le elezioni sarebbero, per il Pd, il momento decisivo per le sue scelte. Renzi dovrebbe scegliere se guardare a un’alleanza a sinistra, formando un centrosinistra, o un’alleanza con il Nuovo Centro Destra che trasformerebbe il Pd in un partito geneticamente modificato. Il popolo del Pd, io lo conosco bene, non accetterebbe mai la seconda soluzione”. Messina non contento insiste sapendo che avrà la risposta che attende. Chiede, e quindi? La risposta è già pronta: “Quindi serve un’alleanza aperta, diamole un nome: Campo Progressista, che riunisca le forze di sinistra in grado di assumersi una responsabilità di governo. Non per motivi di potere ma per fare le cose di sinistra. Intendiamoci: anche questo governo ha fatto cose di sinistra, penso alle unioni civili, ma ha dovuto fare anche altre cose che nascevano dalla necessità di arrivare a un compromesso con un partito di centro-destra. Questo non va più bene”.

Il richiamo ai sindaci “arancioni”, non proprio una scelta azzeccata. 

Leggiamo tutto il testo a partire dal richiamo ai sindaci “arancione”. Pisapia chiama in causa Zedda, lo vede bene nel “Campo progressista”, sigla che ci ricorda il “Campo aperto” di Goffredo Bettini, già leader del Pci romano e poi nazionale, il Virgilio che guida Veltroni, poi sostenitore di Marino, cacciato il quale diventa renziano e parlamentare europeo, sostenitore del sì. Anche per lui una bella botta. Ma torniamo a  Pisapia. Più volte, anche in precedenti interviste, richiama il nome del sindaco Zedda come uno dei principali protagonisti, un primo attore di “Campo progressista”. Solo per dovere di cronaca ricordiamo che a Cagliari, la città di cui è il primo cittadino, i secondi, i terzi, una moltitudine di cittadini hanno votato “No” al referendum, ben il 69,71%. In Sardegna è stata una disfatta. Due assessori della Giunta Regionale si dimettono, perché il governatore e il resto della giunta schierati per il Si insieme al parlamentare europeo. Non è un buon inizio per Pisapia, il quale avverte che, comunque, bisognerà vedere cosa decide la direzione del Pd. “Chiaramente sarà fondamentale vedere cosa deciderà la Direzione del Pd. Ma questo è il momento della scelta”. Ma la Direzione dei Democrat non ha deciso niente, ha solo ascoltato un soliloquio dell’ex premier ilquale ha parlato come se avesse vinto. Lui è fatto così. Forse non si è ancora accorto che ha perso. Come i pugili quando vanno Ko.

Ignoti gli obiettivi sui quali dar vita ad una coalizione con il Pd

Pisapia  pone dei paletti per dar vita alla coalizione con Renzi alle prossime elezioni politiche: “nessuna alleanza con le forze di centro-destra o con quelle persone che non hanno credibilità e affidabilità necessarie, anche se i loro voti oggi sono indispensabili in Parlamento”. Bene, si fa per dire. Pisapia ha già avuto risposte molto secche, tanti no da esponenti di Sel, a partire da Nichi Vendola, di sinistra italiana. A noi interessa capire quali sono, anche per ampia sintesi, gli obiettivi sui quali fondare l’alleanza con il Pd, per ricostruire il centrosinistra. Abbiamo letto e riletto l’intervista: neppure una parola, tutto in politichese. Quali politiche economiche, sociali, il lavoro, i diritti dei lavoratori, la partecipazione, il valore delle forze intermedie, sindacati in primo luogo, la crescita, le disuguaglianze, la povertà, i migranti, l’Europa, la politica internazionale e potremmo continuare, neppure un cenno. Leggi che portano la sigla Renzi Matteo che niente hanno di sinistra vanno bene così? Ci limitiamo a ricordare ai partecipanti a  “Campo progressista” che sul tappeto dopo il referendum costituzionale ce ne sono altri promossi dalla Cgil. Ricorda Stefano Rodotà, ospitato da Repubblica, forse un gesto di “riparazione”, che la Cgil, appunto, ha raccolto più di tre milioni di firme “su temi di particolare rilievo, che già occupano un posto nella  discussione politica. Si tratta della cancellazione di norme del cosiddetto jobs act, quelle riguardanti i voucher, divenuti sempre più strumenti del precariato, la disciplina delle forme di reintegrazione nei casi di licenziamemti illegittimi dopo l’abolizione dell’articolo 18”. È solo l’inizio delle cose che vanno cambiate, che una sinistra degna di questo nome si deve impegnare a cambiare. Il politichese di “Campo progressista” non ci sembra si muova in questa direzione. Può essere  stimolo per nuovi inciuci, magari per qualche posto al sole.

Da jobsnews


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