Credo che nella storia del nostro Paese non si sia mai vissuta una stagione più triste e avvilente di questa. Persino negli anni tragici del terrorismo stragista e della Strategia della tensione, della P2 e della barbarie devastante della mafia in Sicilia, perfino allora, infatti, c’era un minimo di dignità. O, quanto meno, esisteva ancora un galateo, una rettitudine morale, quel minimo di signorilità che marca la differenza tra la decenza e l’abisso, tra un clima politico aspro ma comunque accettabile e le macerie dalle quali siamo circondati in questo drammatico anno zero del nostro assetto istituzionale.
PD e 5 Stelle, da questo punto di vista, costituiscono, al momento, le due facce della stessa medaglia, al punto che viene malignamente da domandarsi se il loro disprezzo di facciata non celi, in realtà, una reciproca utilità, in quello che potremmo definire una sorta di equilibrio coatto che, a ben vedere, fa comodo a entrambi: i democratici, difatti, hanno bisogno del populismo, della demagogia e dell’impreparazione degli avversari per potersi presentare come gli unici salvatori della Patria, eroici argini contro l’Apocalisse incombente; i grillini, invece, hanno bisogno della demagogia, del populismo, delle mance e dei bonus elettorali e degli scandali che hanno coinvolto, in questi anni, una parte del PD per potersi presentare, sia pur appannati, come gli unici paladini dell’onestà e della trasparenza contro il marciume generalizzato di tutte le altre forze politiche.
Io stesso vi confesso che, spesso, ho seriamente sospettato che, tutto sommato, Renzi e Di Maio si disistimino assai meno di quanto non vogliano far credere e lo stesso vale per Salvini, il quale, recitando alla perfezione la parte dell’avversario ideale dell’uomo di Rignano, si e guadagnato una notorietà mai avuta in passato, conducendo un partito per il quale solo tre anni fa si pensava di dover varare una legge ad hoc per consentirgli di rientrare in Parlamento in un soggetto politico stabilmente sopra il 10 per cento.
Non a caso, è lecito asserire che renzismo, grillismo e leghismo in salsa lepenista siano, fondamentalmente, tre forme complementari di populismo, con buona pace di chi si sforza di vedere ancora nel PD l’architrave della sinistra riformista e nelle altre due compagini summenziomate delle alternative credibili ad esso. Purtroppo, almeno per ora, questo è il quadro: avvilente, desolante, tutto quel che si vuole, ma tant’è.
Tuttavia, spiace dirlo, ma le responsabilità non sono equamente distribuite: il PD, infatti, ha molte più colpe rispetto ai ragazzi di Grillo o alle truppe in camicia verde che, da quando c’è il Matteo lombardo, sembrano aver scoperto all’improvviso l’esistenza di forme di vita umana sotto la linea del Po.
Ed è qui che si entra davvero nella palude, in quanto in questo scontro fra opposte tifoserie, con un dibattito pressoché assente, una totale mancanza di visione, di idee e di prospettive per il futuro, prontamente sostituita da urla sguaiate, canee di varia natura e corride che spesso si spostano dai social network al mondo reale, senza purtroppo riacquisire, almeno nel contesto di un’assemblea di partito, quel briciolo di civiltà che almeno per ipocrisia andrebbe garantito, è qui che si viene assaliti dallo sconforto. È in questo contesto che, mancando un’analisi approfondita del degrado della società, dello stato di alienazione dei ceti più deboli, della rabbia e del desiderio di rivalsa che nutrono i dannati della globalizzazione e non essendoci nemmeno una riflessione valida e argomentata sui danni arrecati all’intero Occidente da un modello socio-economico ormai insostenibile e che andrebbe sostituito da un aggiornamento del pensiero keynesiano e di quel Piano Beveridge che consentirono tanto all’Europa quanto agli Stati Uniti di vivere in pace e relativa armonia per almeno tre decenni, è in questo contesto che la disperazione raggiunge il proprio apice, in quanto, giustamente, i cittadini, e gli ultimi a maggior ragione, hanno la percezione di essere abbandonati a se stessi.
E perché il PD è più colpevole degli altri soggetti politici chiamati in causa? Innanzitutto, perché è al governo da cinque anni, e da tre ha anche la maggioranza in Parlamento, e poi perché né il M5S né la Lega possiedono la medesima tradizione, il medesimo radicamento territoriale, la medesima cultura politica e la medesima attitudine a una discussione e a un dibattito interno che vada al di là di un comizio un po’ sboccato o di un cinguettio su Twitter. Piange il cuore, dunque, a vedere la progressiva deriva di questo soggetto, accompagnata da slogan che si commentano da soli e da un livello di propaganda che non ha nulla a che spartire con i valori e i princìpi di una sinistra riformista e desiderosa di ricostruire un’Europa fondata sulla giustizia e sulla solidarietà sociale.
Tralascio, a tal proposito, l’uscita che si commenta da sola di un personaggio che pure dovrebbe possedere quel “savoir faire” tipico degli uomini che siedono ai vertici delle istituzioni e mi concentro, invece, su una convinzione piuttosto diffusa all’interno del PD e, a mio giudizio, alla base delle sue recenti sconfitte.
Continuare ad asserire che all’infuori del PD non ci sia nulla o, peggio ancora, che gli avversari siano sostanzialmente persone di nessun valore, difatti, oltre che spaventosamente presuntuoso e arrogante, è anche controproducente, in quanto suscita in chi ascolta questo genere di discorsi il desiderio di mettere alla prova gli avversari del PD, qualunque avversario del PD, per toccare con mano cosa succede se, all’improvviso, le forze cosiddette sistemiche vengono fatte accomodare all’opposizione e ci si affida alle cosiddette forze anti-sistema.
Ora, premesso che il mio giudizio negativo sulla Raggi è noto e risale a ben prima della vittoria schiacciante dello scorso giugno e premesso che ho detto e scritto un’infinità di volte che se il M5S non si dota di precise regole interne, di uno statuto degno di questo nome e di un dibattito che vada al di là del blog di Grillo e degli eccessi dei troppi Napalm 51 che ruotano intorno a quella galassia, premesso tutto questo, è altrettanto vero che se delle nullità assolute, come una parte del PD definisce i 5 Stelle, hanno polverizzato i candidati piddini in diciannove ballottaggi su venti, di cui due sono Roma e Torino, vien da domandarsi se il problema della selezione della classe dirigente non riguardi anche questa augusta compagine, la quale permette di guardare chiunque dall’alto in basso, pur avendo perso, negli ultimi mesi, quasi tutte le elezioni cui ha partecipato, consegnando ai 5 Stelle e al centrodestra persino alcune storiche roccaforti.
Oltretutto, reputo inammissibile una cultura politica che trae la propria presunta legittimazione dalla denigrazione dell’avversario, dell’umiliazione del prossimo e dalla non accettazione di un pensiero e di una visione del mondo diversa dalla propria, configurando una sorta di totalitarismo involontario che ben si addice anche a una parte dell’universo grillino ma che nel PD, ribadisco, è assolutamente intollerabile.
Per ripartire il PD avrebbe bisogno, innanzitutto, di un’analisi storica a trecentosessanta gradi, in quanto l’impressione che si ricava, ascoltando certe dirette streaming, è che alcuni dei protagonisti di quel partito abbiano una gran voglia di sangue e arena ma non abbiano capito nulla della delicatissima fase che stiamo attraversando. In secondo luogo, avrebbe bisogno di un salutare bagno di umiltà, di smetterla di concepirsi come il luogo degli unti dal Signore: una sorta di popolo eletto, va a capire da chi, che solo può tenere le redini del Paese. Infine, dovrebbe guardarsi negli occhi e prendere atto del fatto che la stagione renziana non ha avuto alti e bassi ma è stata, al contrario, un totale fallimento, caratterizzato inoltre da un avvelenamento dei pozzi che ha spezzato, in alcuni casi, dei legami umani e di militanza comune che duravano da decenni.
In poche parole: il M5S dovrebbe scoprire cos’è la politica e il PD dovrebbe ricordarsene, tornando in sé e sostituendo, attraverso un congresso rifondativo, l’attuale gruppo dirigente con figure più adeguate, rispettose, dialoganti e in grado di concepire la dialettica interna come un valore aggiunto e non come un inutile orpello di cui fare volentieri a meno.
Poiché se siamo ridotti così è perché i soggetti in questione sono quello che sono e poiché temo che i miei auspici siano destinati, almeno nel breve periodo, a cadere nel vuoto, ho l’impressione che questa devastante crisi politica e morale sia destinata ad avvitarsi su se stessa, fino a provocare l’implosione tanto degli uni quanto degli altri. A quel punto, e solo a quel punto, con l’ausilio di una legge elettorale di natura proporzionale, sarà forse possibile tornare ad assistere a un confronto minimamente decente. Tuttavia, non sarà un processo agevole e non saranno certo pochi gli ostacoli da superare, primo fra tutti la trappola di chi vorrebbe ingabbiare, ancora una volta, il Paese in un maggioritario che è alla base del disastro e dello scadimento generalizzato cui abbiamo assistito negli ultimi venticinque anni.
Proprio per questo, penso che sia giunto il momento di provarci, di dedicarsi anima e corpo alla politica e di cercare, tutti insieme, di ricostruire una sinistra all’altezza delle sfide del Ventunesimo secolo. In caso contrario, avremo unicamente il caos e nel caos, come è noto, può succedere di tutto, specie in una Nazione fiaccata da otto anni di crisi lacerante e dal continuo e inconcludente rodeo di avventurieri che hanno svilito il concetto stesso di politica, incapaci di comprendere persino il messaggio, forte e chiaro, che oltre trenta milioni di italiani, che fossero per il SÌ o per il NO, hanno invitato loro con il voto dello scorso 4 dicembre.