Maestro Muti,
io non sono che uno delle centinaia di migliaia, anzi di milioni di persone che amano la musica. L’amano per i suoni, i colori e per le emozioni che trasmette quando celebra le passioni ed i sentimenti umani: l’amore, la gioia la felicità e il dolore, l’abbandono, il furore, l’angoscia, la vita, insomma.
Una delle più grandi emozioni, forse la maggiore, che la musica mi ha dato me l’ha donata lei, anni fa, quando assistetti per televisione ad una sua esecuzione del Nabucco. I media avevano informato del suo impegno per renderla anche filologicamente perfetta. L’attesa non fu delusa: si trattò di un’edizione straordinaria durante quale un’emozione rincorreva un’altra. Durante “Va pensiero” parve che al mondo non vi fosse altro che musica; musica che avvolgeva ogni cosa, tutte e tutti. Musica e dolore. Sì anche dolore: il dolore di un intero popolo che cantava la sua sofferenza e la sua speranza. Quel dolore fu contagioso, divenne di tutti; come la preghiera e la speranza che divennero anche nostre. Quando risuonò l’ultima nota il tempo per qualche attimo fu come sospeso: attimi di incredulità e di silenzio assoluto. Poi, liberatorio, un diluvio di applausi; applausi che sembravano non voler terminare. Applaudimmo anche mia moglie ed io davanti al televisore, con gli occhi umidi. Si racconta che anche alcune coriste dovettero asciugarsi gli occhi quella volta. Lei i nostri applausi non poté sentirli, né quelli di tanti e tante altre, ma solo quelli di chi era in sala. Però dovette avvertire che era accaduto qualcosa di importante, che il prolungarsi dell’applauso esigeva che la magia si rinnovasse e trovò il coraggio di violare le ferree regole dell’Opera e di rompere la tradizione concedendo un bis. Gliene fummo grati.
Ora, maestro Muti, io mi permetto di chiederle di impiegare quello stesso coraggio per una decisione esattamente opposta: disdica il suo impegno a recarsi a far musica in Israele. Qualunque musica suonasse non servirebbe che a coprire l’urlo del Popolo Palestinese che pretende il diritto di vivere in libertà e dignità sulla sua terra e ad imbellettare uno Stato coloniale, impegnato con il suo esercito, il più potente dell’area, a tenere sotto occupazione un altro popolo, a depredarlo della sua terra e delle sue risorse, a negargli il diritto di vivere con dignità ed in libertà sul “suolo natio”. Per questi motivi lo Stato Israeliano dal 1967 ad oggi è stato condannato dall’ONU 87 volte, e sia l’ONU, sia l’U.E. hanno dichiarato illegali le 140 colonie che Israele ha insediato sul suolo della Palestina Occupata, costruendole con modalità che il IV Comma dell’articolo 8 dello Statuto della Corte Penale Internazionale dichiara “crimini di guerra” e nelle quali vivono abusivamente 650.000 coloni.
In un simile contesto non basteranno né spartiti straordinari, né musicisti, cantanti e cori bravissimi e neppure la sua arte a rinnovare la magia della musica. Affinché la musica diventi incantesimo occorrono anche ascoltatori ed ascoltatrici dall’animo sgombero da risentimenti e rimorsi, che riescano a stare in pace con se stessi e con gli altri, almeno per un po’. Ed un pubblico così non sarà facile trovarlo in Israele, perché come giorni fa ha detto qui a Roma Atalya Ben-Abba, una giovane cittadina israeliana renitente di leva, la sicurezza di quel paese è basata sull’oppressione di un altro popolo. Per opporsi a questo stato di cose, Atalya, a 19 anni, ha scelto di farsi processare e condannare e per questo è tornata in Israele. Per questo stesso morivo, lei, maestro Muti, non ci vada.
Glielo chiedo in nome delle tante emozioni che mi ha regalato.
*Della Rete Romana di solidarietà con il Popolo Palestinese.