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Léopold Sédar Senghor: omaggio all’orgoglio dell’Africa

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Léopold Sédar Senghor, quindici anni fa. Tanto è trascorso da quel 20 dicembre 2001 in cui a Verson, presso Caen, si spense, all’età di 95 anni, un politico e un poeta senegalese che ha segnato la storia del Novecento: sia per quanto riguarda il panorama culturale e letterario sia per quanto concerne la tragica epopea del Continente nero.

Perché Senghor non è stato solo l’autore di liriche profondamente belle, profondamente novecentesche e straordinariamente intrise dei suoni, dei colori e dei valori di quell’Africa dolente che per decenni cercò invano di affrancarsi dal dominio coloniale europeo e, quando finalmente vi riuscì, si vide in gran parte costretta a subire una nuova forma di dittatura e d’oppressione, trasformandosi nel campo di battaglia prediletto delle due superpotenze, Stati Uniti e Unione Sovietica, in lotta per il controllo del pianeta e determinate a mantenere i propri avamposti ovunque, a cominciare da una regione ricchissima di risorse come quella africana, antico possedimento delle potenze europee, prima che si suicidassero con un’inutile e sanguinosissima guerra mondiale che ebbe, fra le varie conseguenze, quella drammatica di porre fine a un’egemonia che si protraeva da oltre quattro secoli.

Senghor è stato, soprattutto, il poeta della “négritude” e dell’École de Dakar, l’uomo che insieme ad Aimé Césaire rivoluzionò la letteratura nera e si batté per una sorta di socialismo dal volto umano teso al riscatto del proprio Paese e dell’identità africana nel suo complesso.
Senghor, a capo di uno dei pochi paesi del Continente nero che, grazie a lui, a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta, si salvò dalle mattanze cui andarono incontro tanti altri popoli che, in seguito al processo di decolonizzazione e di emancipazione, si erano ingenuamente illusi di poter iniziare a camminare con le proprie gambe.
Senghor, amico della Francia e collaboratore di De Gaulle, in grado di mantenersi autonomo e, al tempo stesso, rispettoso nei confronti della casa madre, profondo nelle sue riflessioni, abile politicamente e, per gli standard africani, anche piuttosto democratico, mentre tutt’intorno si diffondevano a macchia d’olio le pulsioni tiranniche figlie della Guerra Fredda che avrebbero condotto al potere alcuni dei peggiori carnefici mai visti nella storia dell’umanità.

Un poeta dell’ombra e della luce, dell’alba e del crepuscolo, della solitudine e del vuoto, della speranza e della disperazione, apparentemente contradditorio ma in realtà in grado di ravvivare un’identità comune, di riaccendere una speranza, di far crescere la propria comunità e di restituirle la dignità, l’orgoglio e la fiducia in se stessa che secoli di sfruttamento e di barbarie le avevano strappato.

Un Dubček africano, dunque, capace di ritirarsi al momento opportuno e di passare alla storia come un gigante in ogni ambito del quale è stato protagonista, gettando il cuore oltre l’ostacolo e credendo fino in fondo nella grandezza e nelle possibilità dell’uomo, nell’immensità del pensiero, nella vastità degli orizzonti, nell’eleganza dell’anima e nella forza delle idee, prima che calasse il sipario su un’avventura lunga quasi un secolo, intensa e appassionante, sincera come uno sguardo rivolto costantemente verso il futuro e straordinaria nell’immaginare, con circa trent’anni d’anticipo, ciò che molti non sono stati in grado di comprendere nemmeno dopo il fatidico 1960.

E così, per rendergli omaggio, abbiamo scelto uno dei suoi “canti d’ombra”, intitolato “Porta dorata”: “ Ho scelto la mia dimora accanto ai baluardi riedificati / della mia memoria, all’altezza degli spalti / ricordandomi Joal l’Ombrosa del viso della terra del mio sangue. / L’ho scelta tra la Città e la pianura, là dove / s’apre la Città alla prima freschezza dei boschi e dei fiumi. / Rimpianto mi sono i tetti sanguinanti al bordo delle / acque, cullati dall’intimità dei boschetti / a me cui il più modesto taxi fa sobbalzare e torcere / il cuore sulle onde alte dell’Atlantico / a me che una sola sigaretta rende malsicuro come il / marinaio allo scalo sulla gettata del porto / a me cui sempre trema la voce come l’antico scolaro / della boscaglia quando dico: / <<Bonjour, Mademoiselle… Comment allez-vous?>>”.

Ora riposa, e a noi resta la nostalgia di un guerriero d’altri tempi, i cui ricordi guardavano al domani.


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