Nella puntata di ieri del Diario della crisi finanziaria, ho parlato di Banca Carige, di Monte dei Paschi, di Banco Popolare e Banca Popolare di Milano e delle due sventurate banche epicentro del buco nero del credito italiano: Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca.
Di Marco Sarli
Ma ho dimenticato di dire che, nel settore bancario italiano, le prime cinque pesano per il 40 per cento del totale dell’attivo, mentre con le prime quindici, quelle appunto vigilate dalla Vigilanza BCE, andiamo di molto oltre la metà del totale dell’attivo di un sistema che ne rappresenta circa settecento, ma, con l’inserimento dell’ICCREA, holding di larga parte del mondo delle BCC, andiamo a coprire alcune centinaia di queste banche di credito cooperativo (anche quelle che daranno vita ad un’altra holding delle BCC del centro Nord) e allora la copertura del sistema direttamente vigilato si porta vicino se non oltre il 70 per cento, anche considerando che i primi cinque gruppi sono nati dalla fusione per incorporazione di decine di banche, compresi colossi come la Banca Commerciale e il San Paolo di Torino nel gruppo Intesa, fenomeno, inoltre che ha portato alla pressoché totale scomparsa del mondo delle casse di risparmio, le più importanti delle quali sono confluite nei due maggiori gruppi, Unicredit e Intesa San Paolo.
Ma procediamo con ordine e arriviamo alla Banca Popolare dell’Emilia Romagna, un caso nel quale vediamo applicata, nel 2014, la regola non scritta che bene ci ha spiegato uno dei componenti della Trimurti di Francoforte, l’italiano Ignazio Angeloni, quella che prevede come a volte non basti avere il coefficiente patrimoniale previsto del 10,25 (e anche di più nel caso della solida e molto efficiente banca con sede nella ricca Emilia Romagna). No, non basta perché non sarebbe sufficiente a superare quegli stress tests di cui molto si discute nel mondo accademico che spesso si spinge a giudicarli assurdi, ma non è questa la sede per affrontare questo spinoso argomento, anche se è quello che ha fatto perdere il sonno alla maggior parte dei presidenti e amministratori delegati delle maggiori, e non solo quelle, banche italiane.
Ebbene, agli esterrefatti amministratori della BPER è stato chiesto nel 2014 di lanciare un aumento di capitale da 750 miliardi di euro che avrebbe portato il loro coefficiente patrimoniale a superare di un miliardo di euro il requisito previsto e, per fortuna, la reputazione della banca, tranquillamente trasformata in SpA prima dell’emanazione della contestata legge sulle Banche Popolari, legge su cui è intervenuto il Consiglio di Stato che ha dichiarato inapplicabile la Circolare di Bankitalia che prevedeva, a giudizio della banca di volta in volta in questione, il non esercizio del diritto di recesso da parte degli azionisti in sede di trasformazione della scarl (società cooperativa a responsabilità limitata) in società per azioni, il meccanismo infernale in cui sono incorsi, ad esempio, gli sventurati azionisti della banca Popolare di Vicenza e di Veneto Banca che hanno visto azzerarsi il valore delle proprie quote nelle due banche, anche se la decisione del Consiglio di Stato varrà solo per quanti hanno fatto ricorso entro i termini stabiliti.
Sul sito della BPER è presente in bella vista una finestra cliccando sulla quale è possibile vedere il requisito patrimoniale tempo per tempo previsto dalla Autorità di Vigilanza residente in quel di Francoforte, sicuri come sono che, se verrà chiesto un nuovo aumento, gli azionisti non avranno problemi a sottoscriverlo, ma, purtroppo, non tutte le banche che esamineremo o che abbiamo già esaminato, versano in tale felice situazione! (continua)
Iscriviti alla Newsletter di Articolo21