di Mostafa El Ayoubi
La Turchia è un paese importante in seno alla Nato, un alleato geostrategico per gli Usa nella complessa regione Medio Oriente/Golfo Persico. È una potenza economica e militare in forte competizione con l’Iran, il quale a sua volta ha stretto un’alleanza strategica con la Russia, rafforzata in seguito alla guerra esplosa in Siria nel marzo 2011. Ed è proprio a causa della crisi siriana che le relazioni tra Mosca e Ankara sembravano aver raggiunto un binario morto.
Nel novembre 2015 un cacciabombardiere russo è stato abbattuto dai turchi al confine turco-siriano. In seguito a questo atto militare, la Russia – uno dei principali partner commerciali per la Turchia – ha imposto severe sanzioni ed embarghi contro i turchi (nel settore del commercio e del turismo): la riduzione del 65% delle esportazioni verso la Russia e una perdita di 840 milioni di dollari a causa del calo dei turisti russi nei primi sei mesi di quest’anno. Questa situazione faceva, ovviamente, gioco agli americani.
Ma, a gran sorpresa, nel giugno scorso il presidente turco Erdogan inviò una lettera di scuse per l’aereo abbattuto e ciò ha consentito alle relazioni russo-turche di ripartire. In tal senso, il primo luglio il ministro degli Esteri turco e quello russo si sono incontrati a Sotchi. Il tentativo di putsch contro Erdogan, avvenuto quindici giorni dopo, ha inasprito i rapporti con Washington, accusata da Ankara di essere stata dietro quell’operazione militare orchestrata, secondo il “sultano”, dal suo acerrimo oppositore Fethullah Gülen, che da anni vive negli Stati Uniti. Il golpe ha di fatto avvicinato di più la Turchia alla Russia. Pare che i servizi segreti russi avessero avvisato quelli turchi di un imminente colpo di Stato.
Il 9 agosto il presidente russo Putin ha ricevuto Erdogan a San Pietroburgo e in seguito a questo incontro è stata annunciata la ripresa della costruzione della prima centrale nucleare in Turchia in collaborazione con i russi.
Inoltre – ed è la cosa più interessante – dovrebbe partire il progetto del gasdotto turco South Stream, per trasportare il gas russo via Mar Nero e Turchia verso il sud-est dell’Europa. Se questo avvio di collaborazione russo-turca dovesse consolidarsi, ciò creerebbe enormi difficoltà agli Usa e alla Nato: questo re-orientamento strategico potrebbe mandare in aria i grandi “sacrifici” finora fatti dal governo americano per indebolire la Russia attraverso un “regime change” in Siria. L’esclusione dei turchi dall’offensiva militare per liberare Mosul da Daesh può essere letta come una reazione alla “nuova” politica estera turca. Giocando la delicata carta curda, gli americani hanno coinvolto in questa operazione le milizie curde, considerate da Ankara dei terroristi.
Ma Erdogan non accetta che la Turchia venga esclusa da Mosul e si è lanciato in una serie di rivendicazioni territoriali che vanno dal Medio Oriente fino alla Tracia Occidentale (Grecia e Bulgaria).
Questa situazione costituisce ovviamente una nuova gatta da pelare per gli Usa/Nato, perché un’alleanza concreta tra la Russia e la Turchia (che fa pur sempre parte della Nato) potrebbe rimescolare le carte e far svanire le ambizioni americane nella regione. Tale alleanza andrebbe a vantaggio dei russi: a livello economico il progetto South Stream rafforzerebbe il settore energetico che la Nato ha cercato di sabotare con la crisi in Ucraina, attraverso la quale passa il gas russo di Gazprom; a livello militare, i turchi (che finora hanno giocato un ruolo importante nella guerra contro la Siria con il sostegno ai gruppi jihadisti) potrebbero fare un passo indietro e consentire
all’esercito russo di liberare la parte est di Aleppo e in altre zone del Paese, salvando così il presidente al Assad (tanto odiato da Tel Aviv, Washington e Riyad, ma anche da Parigi e Londra) e rafforzando la loro presenza militare nel Mediterraneo e nel Medio Oriente. E l’Iran rafforzerebbe il suo ruolo come potenza regionale. In tal caso potremmo assistere non più al “Gran Medio Oriente” sotto controllo Usa, ma ad un nuovo equilibrio geopolitico tra l’asse Usa e alleati (Israele, Ue e Paesi arabi del Golfo) e quello composto da Russia, Cina, Iran e quindi anche dalla Turchia. E ciò potrebbe forse favorire finalmente una stabilità politica e sociale nella regione.