di Maurizio Ambrosini (docente di Sociologia delle migrazioni all’Università di Milano)
Una testimonianza dalla città di Erbil, nel Kurdistan iracheno, che vive una situazione difficile per l’alto numero di profughi provenienti dalla Siria e di sfollati interni.
Si fa presto a dire «aiutiamoli a casa loro!». Agli imperterriti sostenitori di questa inossidabile ovvietà bisognerebbe consigliare un viaggio verso la prima linea delle guerre in corso, nei luoghi dell’accoglienza delle persone scacciate dalle loro case. Per esempio nel Kurdistan, Nord dell’Iraq, intorno alla capitale Erbil: una città grande più o meno come Milano. In questa regione, malgrado i conflitti in corso, sono stati accolti 225mila profughi dalla vicina Siria. Sempre in questa regione, a causa dei conflitti in corso, sono stati accolti circa 900mila sfollati interni: persone provenienti da altre regioni dell’Iraq, in parte cristiani, in parte curdi, in parte yazidi o appartenenti ad altre minoranze, ma in gran parte arabi sunniti, che non godono localmente di grandi simpatie.
Già i numeri danno un’idea della sfida da affrontare: in tutto l’Iraq gli sfollati interni sono circa tre milioni. Nello stesso tempo confermano una regola: le persone in fuga di norma fanno poca strada, e non potrebbero farne di più. Sui 65 milioni di rifugiati conteggiati dall’Unhcr, l’agenzia dell’Onu incaricata di assisterli, 40 sono sfollati interni. Dei rimanenti 25 milioni, la grande maggioranza ha trovato scampo appena oltre confine, nei paesi limitrofi. In tutto, l’86% dei rifugiati è accolto in paesi del cosiddetto Terzo Mondo, in Europa ne arriva meno del 10%: i più fortunati e i più dotati di risorse, economiche, sociali e culturali.
Entrare nel sistema di accoglienza locale significa poi scoprire che esistono vari tipi di profughi e vari tipi di sistemazioni, distribuite in base alla provenienza, al momento dell’arrivo, all’appartenenza etnico-religiosa, ai legami sociali con la popolazione residente. La maggioranza dei profughi non vive in campi o altre strutture di emergenza, ma è riuscita a trovare un qualche tipo di alloggio in città, in genere modesto, costoso e affollato, grazie alle proprie risorse, ai legami di parentela, all’aiuto di qualcuno (per i cristiani, quello delle chiese).
I campi profughi in periferia
Chi non è riuscito a trovare alloggio vive nei campi, ma anch’essi formano una galassia molto articolata e stratificata: i primi sono stati costruiti alla periferia di Erbil, sono abbastanza piccoli, meglio organizzati, dotati di un numero di servizi igienici un po’ più elevato (all’incirca uno ogni venti persone). Le famiglie hanno potuto allargare i container loro assegnati con verande realizzate con materiali di fortuna, ma a volte anche costruendo delle stanzette in muratura. I capifamiglia riescono ad andare in città a cercare lavoro e a guadagnarsi da vivere, oppure allestiscono delle bancarelle e avviano dei piccoli commerci. I più deboli andavano in cerca di elemosina, utilizzando anche donne e bambini. Ma dopo qualche tempo, con il protrarsi della crisi e la crescita dei numeri, anche a Erbil la popolazione locale ha cominciato a manifestare insofferenza: i lavoratori poveri hanno lamentato la competizione sul mercato di lavoratori ancora più poveri di loro. I commercianti hanno denunciato la concorrenza dei nuovi e affamati rivali. Le autorità hanno ritenuto non più tollerabile il triste spettacolo dei questuanti e li hanno scacciati dalle strade, in una città che era stata designata nel 2014 come capitale del turismo arabo e sognava di diventare la nuova Dubai.
Così alle successive ondate di profughi senza casa è stato impedito l’accesso in città. Sono stati confinati in villaggi o remote località in mezzo al nulla, distanti più di un’ora di auto da Erbil, senza possibilità di trovare lavoro e di integrarsi nella società locale. Spesso i campi sono cresciuti spontaneamente, senza una programmazione, senza servizi e malgrado l’opposizione delle Ong internazionali, come nel caso di Debaga, a oltre 70 km da Erbil. Qui sorgono ormai quattro campi, e un altro è in costruzione. Il primo, realizzato dalla Mezzaluna rossa degli Emirati, offre casette in muratura con servizi. All’inizio, una per famiglia. Ora ce ne stanno in media tre, e ognuna in media ha quattro figli. Gli altri accolgono le famiglie perlopiù sotto le tende. All’entrata donne e uomini vengono separati: le prime accolte senza troppi problemi, gli altri confinati in un’area di sosta e sottoposti a procedure di controllo severe. Sono sospettati di collusioni con l’Isis, venendo dalle zone occupate. Si parlano con le loro donne attraverso una rete metallica.
Le difficoltà del ritorno a casa
Mentre ricominciano gli arrivi dai villaggi via via riconquistati dalla coalizione anti-Isis, diversi pullman non proprio di ultima generazione sono pronti a riportare indietro i profughi: stremati dalla vita vuota nei campi, senza prospettive di lavoro e di sistemazione più confortevole, spinti dalle autorità e forse soprattutto attratti dal sogno di poter tornare alla vita di un tempo.
Il ritorno è l’opzione auspicata e promossa dai governi, e già un milione di persone in Iraq ci hanno provato. Il problema sono le condizioni insostenibili che i profughi rischiano di trovare rientrando nei loro villaggi: case saccheggiate e bruciate, mine sparse, infrastrutture distrutte (elettricità, acqua, scuole, ospedali…), economia azzerata, strascichi dei conflitti etnici, insicurezza diffusa. Tra i cristiani la nostalgia di casa e il desiderio di tornare sono forti, ma hanno paura: «Dobbiamo essere protetti», mi dicono.
Nella città di Karakosh, il loro centro più importante, hanno dovuto lasciare tutto e abbandonare la città nell’arco di dieci ore. Dopo la riconquista della città, mi mostrano foto desolanti di incendi, vandalismi e distruzioni. Ora non li spaventa tanto dover ricostruire case, servizi e attività economiche, quanto piuttosto l’instabilità politica.
La vita sospesa dei profughi, l’incertezza e la mancanza di prospettive hanno serie ripercussioni sulla condizione dei minori, che sono circa la metà del totale. La loro mancata o inadeguata scolarizzazione rischia di proiettare ombre inquietanti sul futuro di un’intera generazione, e quindi di prolungare per anni gli effetti della guerra. Si occupano di loro alcune Ong specializzate, tra cui Terre des Hommes Italia. Grazie a loro, sono venuto a conoscenza di un problema nel problema: quello dei minori non accompagnati, perlopiù maschi adolescenti, che giungono in numero crescente dalle zone controllate dall’Isis. Ragazzi che fuggono dalla guerra, che dicono di voler riprendere gli studi, ma che devono essere protetti contro il reclutamento da parte delle forze irachene e curde, i cui emissari offrono loro l’apparenza di una missione, di un mestiere e di un compenso. Ragazzi che rischiano di compromettere il loro futuro, forse l’integrità fisica e persino la vita, se nessuno s’interpone tra loro e il richiamo delle armi.
Ad attenuare la percezione di una netta linea di demarcazione tra buoni e cattivi contribuisce anche la storia di Aziz (nome di fantasia), giovane rifugiato dalla Siria e interprete in un campo che accoglie i profughi curdi siriani, anch’essi confinati lontano da Erbil, a Basirma. Ci racconta di essere arrivato senza la famiglia, rimasta in Siria. È l’unico figlio maschio, con sei sorelle. L’esercito siriano non lo ha arruolato, ma le milizie curde lo volevano, e sono andate a cercarlo due volte. Ha risposto male al capovillaggio: «Tu hai tre figli maschi e li hai mandati in Europa, e vuoi prendere me per mandarmi a combattere al loro posto?». Il padre a quel punto lo ha spinto a fuggire, e ora con il suo modesto stipendio aiuta la famiglia rimasta in Siria.
Sullo sfondo, il cielo è offuscato dal fumo che si alza dai campi petroliferi bruciati dall’Isis. E sembra l’oscuro presagio del cupo destino di un paese senza pace. Ma dietro il fumo esce un raggio di sole, e la speranza rinasce.
(pubblicato su Confronti di dicembre 2016)