C’è un Brasile sordido e ottuso la cui violenza può strappare in un istante l’estasi suggerita da sorrisi innocenti nel mezzo d’una natura ancora straordinaria, malgrado le devastazioni di cent’anni di speculazione edilizia. Il Morro dos Prazeres, dove il viaggiatore italiano Roberto Bardella, 52, ha perduto la vita, si scapicolla giù dai rocciosi 700 metri del Corcovado dominati dalla statua del Cristo Redentore nell’acqua della baia più bella del mondo, secondo la convenzione turistica. Tutt’ attorno il verde rigoglioso della foresta tropicale e zampillii d’acqua di montagna ingentiliscono gli insediamenti abusivi e nascondono le ville lussuose che vi si alternano in un’urbanistica disordinatamente interclassista.
L’intera Rio alterna lussi e miserie seguendo un impianto che nella sua essenza non è cambiato da quando oltre 500 anni fa vi s’installarono i conquistatori portoghesi. Preoccupati di difendersi da invasioni spagnole, inglesi e francesi, spinsero verso le meno ospitali alture circostanti gli indigeni Tupí-Guaraní e fortificarono le coste. A partire dal 1700, la città moderna è cresciuta con gli stessi criteri: gli edifici sempre più alti insediati lungo le spiagge e le valli, i conglomerati precari aggrappati sui dirupi senza valore fondiario delle montagne che la circondano. Il primo venne costruito dai reduci di una delle numerose guerre interne su una collina coperta da una leguminosa invasiva e non commestibile, la favela. E favelas furono le innumerevoli che l’hanno seguita.
Oggi, 820 favelas ospitano circa 2 milioni degli oltre 6 milioni di persone che abitano Rio. Fino agli anni Ottanta del secolo scorso erano soltanto borgate degradate, prive di servizi essenziali quali rete fognante e acqua corrente. Gli allacciamenti alla rete elettrica quasi tutti abusivi. Davano alloggio al personale di servizio della città borghese: alle donne che assicuravano cucina e pulizie, agli operai dell’edilizia e agli artigiani di recente inurbazione. E costituivano la culla del Carnevale, delle scuole di samba più famose che lo facevano sfilare per le strade del centro cittadino in un delirio di sincretismo folcloristico e para-religioso. Una volta l’anno, i baraccati delle favelas erano ammessi con tutti gli onori sull’asfalto dell’urbe carioca ricoperto di fiori e coriandoli. La festa era di tutti.
Poi sono arrivati i narcotrafficanti. La miseria ha smesso ogni ingenuità, qualsiasi innocenza. Nelle favelas, dove più dove meno, sono entrate a centinaia le armi. Non quelle della delinquenza minuta che c’è sempre stata, bensì i lanciarazzi, i kalashnikov, le granate a frammentazione. La popolazione è restata quella di prima, ma inquadrata sotto un ordine militare che distribuisce premi a complici e inermi, punizioni anche feroci a quanti gli si oppongono. Vittima comunque delle guerre che periodicamente esplodono tra le diverse bande di narcos, in disputa perenne di territori trasformati in mercati di consumo. E dei loro scontri a fuoco con la polizia, che a volte li contrasta e più spesso se ne fa complice.
Al Morro dos Prazeres io sono andato la prima volta quarant’anni fa per incontrare Roberto Marinho, allora indiscusso tycoon della stampa e della televisione brasiliane (TVGlobo, quotidiani e riviste). Il luogo appariva isolato, selvaggio ma placido. Tanto che protetto dalla non facilmente accessibile natura non meno che dal proprio potere, Marinho vi ospitava un paio di amici personali (uno era il famoso scrittore Jorge Amado) ricercati dalla dittatura militare in quanto militanti comunisti. Oggi anche la più contraddittoria nobiltà d’animo sembra essere venuta meno. Il narcotraffico avvelena le coscienze, oltre a distruggere i corpi. Per chi s’inoltra in questi labirinti, qualsiasi errore o anche solo una distrazione possono diventare fatali.
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