Alla fine gli italiani hanno votato per la Costituzione e – come volevano in molti – contro il populismo. Contro il populismo (o forse dovremmo dire meglio la demagogia) del Governo. Quello che ha tirato in ballo – senza che ci entrassero nulla – i bambini diabetici o le persone afflitte da gravi malattie che avrebbero addirittura beneficiato di una cattiva riforma costituzionale, senza spiegare che proprio sulla sanità non sarebbe cambiato praticamente nulla e che invece cambierebbe molto se sulla stessa si immettessero maggiori risorse anziché buttarle in bonus per diciottenni anche ricchi.
Il populismo del “meno politici”, con la variante delle “meno poltrone”. Quelle di rappresentanti del popolo, che sarebbero stati ridotti senza criterio (non essendosi mai capito perché non diminuire ragionevolmente sia il numero di deputati che di senatori), per lasciare magari quelle di chi non rappresenta nessuno.
Il populismo dei risparmi, che, partiti da un miliardo, si sono ridotti a cinquecento milioni nelle stesse parole del Governo, che non ha sentito neppure il bisogno di spiegare il perché del dimezzamento, ma che la Ragioneria generale dello Stato ha ritenuto fermarsi a meno di sessanta di sicura quantificazione a cui si sarebbero potute aggiungere altre poste dipendenti dallo sviluppo della riforma delle Province (che dalla Costituzione sarebbero state cancellate senza che questo ne determinasse però la soppressione come enti) e dall’attuazione della rideterminazione degli emolumenti dei consiglieri regionali (il cui legame a quelli percepiti dai sindaci dei comuni capoluogo avrebbe potuto portare, in alcuni casi, invece, a un aumento).
Insomma, mentre si continuava a paventare, tra i molti rischi inesistenti (come già oggi risulta chiaro), quello del populismo, era proprio il Governo a farne uso. Anche oggi, in realtà, si sente ripetere il timore per l’arrivo di questo populismo, come se – appunto – non lo avessimo mai avuto. Questa agitazione della paura è volta a trovare strumenti per evitare che i “populisti” possano arrivare al Governo.
Per scongiurare questo “pericolo” gli altri si impegnano a congegnare norme che ne impediscano l’eventualità: meno occasioni di voto e leggi elettorali capaci di imporre una maggioranza dall’alto vanno sicuramente in questa direzione. L’italicum e la riforma costituzionale erano state pensate – a quanto pare – proprio con questo obiettivo. Si tratta di scorciatoie che evidentemente il popolo non apprezza e non potrebbe apprezzare. Infatti, sembra che proprio la composizione del Senato e in particolare la non elettività dei suoi componenti abbiano portato alla bocciatura della riforma (in realtà molto mal funzionante anche per altri aspetti).
Il maldestro tentativo di sostenere in extremis un recupero di elezione diretta, dopo avere propagandato per mesi e anni che i senatori non potevano più essere eletti (anche perché – si aggiungeva con argomento molto discutibile – altrimenti avrebbero dovuto dare la fiducia al Governo) si è rivelato poco efficace, mostrando tutta la sua debolezza.
Ora, chi vuole evitare il “populismo”, soprattutto dopo il voto sul referendum costituzionale del 4 dicembre, dovrebbe, a nostro modesto avviso, abbandonare queste pericolose scorciatoie volte a diminuire (e rendere meno capaci di incidere) le occasioni di espressione dei cittadini e, invece, impegnarsi a elaborare e a portare avanti programmi “non-populisti” attraverso i quali offrire risposte alle necessità del popolo che siano migliori rispetto a quelli dei “populisti”. Certamente è più faticoso perché implica la necessità di affrontare questioni che spesso sono lontane dai palazzi, che richiedono studio e approfondimento ormai spesso dimenticati da chi fa politica come carriera personale, e che una volta arrivato cerca di evitare di dover interrompere il cursus a causa di “fastidiose” votazioni. Come certamente è considerata da molti commentatori e politici di maggioranza quella del 4 dicembre.
Eppure la creazione di alternative più credibili alla ricetta dei “populisti” è la soluzione per restituire dignità alla politica, per farla tornare a essere ciò che dovrebbe essere e cioè partecipazione alla vita pubblica volta a individuare le soluzioni che servono ai cittadini, al popolo, secondo visioni differenti, alternative e contrapposte. Perché le soluzioni devono essere sempre più di una in democrazia, che implica necessariamente la possibilità di scegliere. Ecco, soltanto se avremo ancora forze politiche che, prima di pensare a quale faccia le rappresenterà e con quale altra potrebbero allearsi, si impegneranno nella elaborazione di soluzioni concrete per problemi reali sarà possibile dare risposte più convincenti di quelle che chiamano “populiste” (e che, almeno in alcuni casi, più correttamente dovremmo definire demagogiche).
Vedremo se dopo il chiaro pronunciamento popolare del 4 dicembre le forze politiche riusciranno finalmente a capire questo o se torneranno subito a parlare di metodi per limitare la possibilità di scelta del popolo, che allora non potrà che rivolgersi ai “populisti”, rischiando di incontrare (come già accaduto), più precisamente, dei demagoghi.