“Il 2016 è stato un anno disastroso per i diritti umani nel mondo”, ha detto ieri Zeid Raad Al Hussein l’Alto commissario delle Nazioni Unite alla vigilia della Giornata dei diritti umani che si celebra oggi, passando in rassegna i nuovi flussi migratori, il traffico di armi e di droga, il cambiamento climatico, il terrorismo globale, le guerre in corso – soprattutto Siria e Yemen – e la crisi economica. Un andamento però che non riguarda soltanto le zone di conflitto o il resto del mondo, ma una svolta generale che va nella direzione di un arretramento, in materia di diritti, che sembra affermarsi ovunque.
Negli Usa il nuovo presidente è atteso sul piede di guerra dalle donne e da tutte le persone che si sono sentite minacciate durante la sua campagna elettorale per la promessa di cancellare molti dei diritti conquistati: donne americane che il 21 gennaio invaderanno Washington al grido “i diritti delle donne sono diritti umani”, per protestare contro Donald Trump nel giorno del suo insediamento alla Casa Bianca. Con più di 136.000 adesioni un mese e mezzo prima della marcia, queste donne vogliono chiarire subito che a quei diritti conquistati con dura lotta, e pubblicamente minacciati da Trump durante la sua campagna elettorale, non ci rinunceranno, e lo diranno forte con una dichiarazione d’intenti che sarà aperta a tutti quelli che si sono sentiti additati da lui: donne di tutte le età, culture, razze ma anche uomini, LGBTQ, nativi, neri, musulmane, diversamente abili.
Dimenticando l’articolo 1 della Dichiarazione Universale dei diritti Umani, ovvero che “Tutti gli esseri umani nascono uguali in dignità e diritti”, Trump ha fatto ben capire nella sua campagna elettorale che le donne – insieme ad altri “diversi” come clandestini, LGBTQ, disabili, ecc. – non sono tra quegli “esseri umani”: affermando che un vip può fare ciò che vuole con una donna prendendole i genitali, scrivendo che “le molestie e violenze sessuali sono la logica conseguenza della vicinanza di uomini e donne”, impegnandosi a ritirare gli ordini esecutivi emessi da Obama riguardo la parità di retribuzione, dicendo pubblicamente che l’interruzione di gravidanza dovrebbe essere vietata e che le donne che la praticano dovrebbero essere punite, e promettendo l’istituzione di un tribunale anti-aborto presso l’Alta Corte, mettendo così in seria discussione la Roe v. Wade (la legislazione sull’aborto negli Usa) e lasciando liberi gli Stati di decidere – promessa a cui l’Ohio ha già risposto con un progetto di legge che vieta l’interruzione in ogni caso, anche in presenza di malformazione del feto o in caso di stupro.
Decisioni che non solo ledono la libertà di ogni donna a decidere sul proprio corpo ma che rimettono continuamente in discussione un diritto democraticamente deciso, e questo in un Paese che questi diritti li ha contribuiti a metterli nero su bianco.
Come in Italia, dove il diritto è nato, e in cui le donne hanno portato in piazza 250 mila persone per ribadire il diritto a vivere una vita libera dalla violenza maschile, nonché la libertà di decidere sul proprio corpo di fronte a una lesione quotidiana: un Paese in cui le istituzioni violano una legge votata con un referendum che regola l’interruzione di gravidanza, la 194, fino anche a far morire una donna incinta in un ospedale per la non applicazione di un suo diritto a essere tutelata, come è successo a Valentina Milluzzo.
Un’Europa che con le sue istituzioni paladine dei diritti umani, sta prendendo una deriva reazionaria che per prima cosa attacca i diritti acquisiti colpendo le fasce più esposte, le donne e i giovani, e assiste senza dire una parola al rafforzamento di una dittatura come quella di Erdogan in Turchia che con la sua agenda islamica procede spedita verso un presidenzialismo – in Parlamento con una proposta di riforma costituzionale – che sancisce un regime già in atto e che con gli arresti di massa, uccisioni arbitrarie, uso della tortura, in questi anni ha violato più di un articolo contenuto nella Dichiarazione del ’48, come per esempio: “Nessun individuo potrà essere arbitrariamente arrestato, detenuto o esiliato”, oppure “Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizioni crudeli, inumane o degradanti” (articolo 5), o ancora “Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione” (articolo 19). Un regime che solo 15 giorni fa – mentre il mondo celebrava la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne – ha tentato di far passare una legge che avrebbe reso legale lo stupro sulle bambine attraverso il matrimonio riparatore, una proposta definita dall’Unicef come una “amnistia per i colpevoli di abusi sui minori”, e ritirata solo grazie alla fortissima contestazione delle donne scese in strada.
Un mondo, quello delle istituzioni che promuovono i diritti umani, che si è dimenticata di alzare la voce quando qualche giorno fa la nota avvocata per i diritti umani, Azza Soliman fondatrice del Centro per l’assistenza legale alle donne egiziane (CEWLA), è stata arrestata al Cairo con l’accusa di finanziamenti illeciti dall’estero – primo arresto di una probabile nuova ondata di repressione nel Paese – ma che in realtà è stata presa di mira dalle autorità da quando ha dichiarato pubblicamente di essere testimone oculare della morte dell’attivista del partito egiziano Alleanza popolare socialista, Shaimaa al-Sabbagh, uccisa nel 2015 delle forze dell’ordine durante una manifestazione pacifica in piazza Tahrir al Cairo. Assassinio per il quale era stato condannato a 15 anni di reclusione l’agente Yassin Hatem Salah Eddin con una sentenza però annullata in un secondo tempo, come molte sentenze sospese a carico di agenti di polizia responsabili delle uccisioni di circa 900 manifestanti nella rivolta di piazza nel 2011 in Egitto. Autorità sospettata di essere responsabile, tra le altre, anche della morte sotto tortura di Giulio Regeni, al quale oggi Amnesty International dedica la giornata insieme a Edward Snowden (l’ex informatico della Cia che con le sue rivelazioni ha dato il via al Datagate autoesiliato in Russia), Bayram Mammadov e Giyas Ibrahimov (giovani attivisti azeri condannati a 10 anni di carcere per aver pubblicato su fb la foto di una scritta irridente su una statua di Heydar Aliyev, defunto ex presidente), Máxima Acuña (la donna peruviana che difende la propria terra dall’aggressione di Yanacocha), e Ilham Tohti (intellettuale uiguro condannato all’ergastolo in Cina con l’accusa di aver incitato la popolazione al separatismo), e “a tutte le persone che hanno subito o continuano a subire violazioni di quei meravigliosi 30 articoli” con la maratona mondiale di raccolta firme “Write for Rights”.
In queste ore Human Rights Watch francese ha lanciato sui social la campagna #ProtectSchools e #SafeSchoolsDeclaration ponendo l’attenzione su un’altra fascia tra le più esposte nel mondo: quella dei bambini e delle bambine. Una campagna per la protezione delle scuole nelle zone in conflitto, chiedendo direttamente al presidente Hollande di aderire alla “Dichiarazione sulle Scuole Sicure” (Safe Schools Declaration) nata nel 2015 a Oslo a cui hanno aderito già 56 Paesi. Dichiarazione che impegna a “dissuadere i militari dal commettere attacchi alle scuole impegnandosi a indagare e perseguire come crimini di guerra chi coinvolge le scuole” e a non utilizzare le scuole come quartier generale, depositi per le armi, ecc. “Gli attacchi contro gli studenti e le scuole sono un problema globale che richiede una risposta globale urgente – dice Bénédicte Jeannerod che dirige HRW francese – e la dichiarazione sulla sicurezza nelle scuole contiene diverse misure che i Paesi coinvolti possono adottare volontariamente”. Scuole trasformati in caserme o basi militari in almeno 26 paesi che hanno vissuto conflitti armati tra il 2005 e il 2015 da parte anche di quegli stessi Paesi che pur sbandierando oggi i diritti umani come diritti da rispettare, non escludono interventi militari, con soldati che occupano l’intera scuola, o solo una parte, esponendo ad attacchi e a violenze gli studenti e le studentesse che continuano a frequentare la scuola, con bambini e insegnanti feriti o uccisi, locali danneggiati o distrutti: una presenza particolarmente minacciosa per le ragazze, che tendono a disertare l’istruzione quando i soldati si installano al loro interno.
Per l’Unicef ogni giorno 4 tra scuole e ospedali vengono bombardati o occupati da gruppi o forze armate, nonostante la normativa internazionale esistente sia molto chiara in tema di protezione dei civili – Convenzione di Ginevra del 1949 e Protocolli aggiuntivi 1977 – e sebbene questi attacchi rappresentino una delle 6 gravi violazioni contro l’infanzia identificate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (Uccisione e mutilazione dei bambini, Reclutamento come soldati, Violenza sessuale sui minori, Attacchi contro scuole e ospedali, negazione di accesso agli aiuti umanitari per i bambini, sottrazione di minori). E questo in un contesto dove, sempre secondo l’Unicef, circa 535 milioni di bambini nel mondo (1 su 4) vivono situazioni di conflitto armato in cui spesso non accedono a cure mediche, istruzione, nutrizione e protezione, con circa 50 milioni sradicati dal loro contesto. In Afghanistan circa metà dei bambini non accede all’istruzione e in Sud Sudan il 59% non va a scuola, nello Yemen 10 milioni di minori sono coinvolti nel conflitto in atto, e in Siria 500 mila bambini vivono in 16 aree sotto assedio, tagliati fuori dall’assistenza umanitaria. Solo in questi ultimi giorni 31.500 persone sono state sfollate dalla parte orientale di Aleppo, e di questi la metà sono bambini, in una guerra dove anche quei Paesi che oggi promuovono i diritti umani, partecipano.