Nei capannelli di deputati alla Camera più che di riforme (legge elettorale, disoccupazione, banche) si parla di candidature e di liste elettorali. Domina un clima di confusione e di nervosismo di fine legislatura. Paure per il perdurante ristagno economico si sommano a quelle per il terrorismo islamico. Qualcuno pensa e lavora a nuovi partiti e nuove liste elettorali. C’è chi studia inedite alleanze politiche. L’imperativo è fare presto: mettere da parte l’Italicum ormai affondato ed approvare velocemente un altro sistema elettorale per le politiche. Il Mattarellum proposto da Matteo Renzi piace al leghista Matteo Salvini e potrebbe avere l’adesione di Beppe Grillo.
Il governo Gentiloni potrebbe durare appena 4-5 mesi o forse meno. Il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio non ha usato perifrasi: «Penso che la primavera sia la scadenza in cui andremo alle elezioni, ma decide il presidente della Repubblica». Matteo Renzi, predecessore di Paolo Gentiloni alla presidenza del Consiglio e segretario del Pd, vorrebbe andare a votare in tempi rapidi: tra aprile e giugno del 2017.
Il perché lo ha spiegato bene il ministro del Lavoro Giuliano Poletti: «Mi sembra che l’atteggiamento prevalente sia quello di andare a votare presto, quindi prima del referendum sul Jobs act». La considerazione, successivamente in parte rettificata, fa emergere la nuova paura di Renzi: perdere il referendum sulla riforma del mercato del lavoro, dopo la sconfitta già subita nella consultazione del 4 dicembre sulla revisione della Costituzione.
Il segretario del Pd ha pronta la contromossa. La Consulta dovrebbe decidere l’11 gennaio la data del referendum chiesto dalla Cgil per abolire il Jobs act e Renzi punta sulle elezioni politiche anticipate per far slittare al 2018 il pericoloso appuntamento referendario. Teme il disastro totale e cerca di evitarlo: con il referendum sulla riforma costituzionale è stato sfrattato dalla presidenza del Consiglio, con quello sul Jobs act rischia di perdere anche la segreteria dei democratici. La riforma del mercato del lavoro non piace a molti italiani e una nuova batosta referendaria decreterebbe la sua morte politica.
Gentiloni, amico e già stretto collaboratore di Renzi, è prudente. Il presidente del Consiglio, chiedendo il voto di fiducia alla Camera il 13 dicembre, ha definito il suo governo “di responsabilità” con una vita legata a “fin quando avrà la fiducia del Parlamento”. Già, fino a quando “avrà la fiducia del Parlamento”.
Il conto alla rovescia è già cominciato. Per aprire in tempi rapidi le urne si sta formando un folto schieramento, anche se eterogeneo: il Pd renziano, il M5S di Beppe Grillo, la Lega Nord di Matteo Salvini, Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Forza Italia di Silvio Berlusconi, i vari centristi di maggioranza e di opposizione, le sinistre di Nichi Vendola e Stefano Fassina, le minoranze del Pd sarebbero invece per arrivare alla fine della legislatura all’inizio del 2018.
In una situazione molto difficile, molto più precaria di quella di Gentiloni è Virginia Raggi. La sindaca grillina di Roma, eletta appena sei mesi fa a furor di popolo a guidare il Campidoglio, sta naufragando nel caos amministrativo, politico e giudiziario. Tangenti, arresti per corruzione, dimissioni a catena nella giunta e nelle aziende municipalizzate di servizi pubblici chiave come Atac (trasporto urbano) e Ama (rifiuti), si sono abbattuti sulla testa della prima cittadina della metropoli. Ha perso i più stretti collaboratori, è stata messa sotto accusa da gran parte del M5S della capitale e dallo stesso Grillo.
La Raggi è sotto assedio e il peggio potrebbe presto arrivare sotto forma di una pericolosa tegola giudiziaria. Fino a poco tempo fa assicurava: «Non mollo». Adesso è cauta: «Se mi arriverà un avviso di garanzia? Valuterò». Le accuse dei cinquestelle contro di lei e l’arrivo in giunta di uomini stimati da Davide Casaleggio e da Grillo? Gioca in difesa: «Non sono commissariata e mi sento ancora dentro il M5S».
Sia Paolo Gentiloni sia Virginia Raggi sono appesi a un filo, sono come due vuoti a perdere. Il primo e la seconda sono due specchi di due diverse crisi: quella del Pd e quella del M5S. Il presidente del Consiglio è il volto della crisi del Pd renziano, la maggiore forza del Parlamento e del governo, il baricentro del sistema politico italiano. La sindaca di Roma è l’emblema della crisi del M5S, la maggiore forza dell’opposizione, la testa d’ariete della protesta anti sistema.
Grillo teme che il flop della sindaca di Roma possa offuscare e danneggiare il M5S alle elezioni politiche: «Sono stati fatti degli errori che Virginia ha riconosciuto: si è fidata delle persone più sbagliate del mondo». Il garante dei cinquestelle, nonostante i molteplici ostacoli, vuole andare avanti perché «governare Roma è più difficile di governare il Paese», ma il prossimo “scivolone” potrebbe decretare la fine della Raggi e della sua giunta.
Renzi riflette sulla sconfitta al referendum costituzionale, soprattutto quelle patita “in casa” per la marea di “no” arrivata dai giovani e dal Sud. Ma pensa di rifarsi nelle elezioni politiche puntando soprattutto sul 40,8% di voti ottenuti dal “sì” al referendum. Il segretario del Pd ha in mente tempi brevi: «Stiamo andando al voto, chi ora ha una paura matta di votare sono quelli del 59%» che hanno votato contro la riforma costituzionale. Se così fosse, il governo Gentiloni avrebbe davanti pochissimi mesi di vita. Paolo Gentiloni e Virginia Raggi un po’ si somigliano, sono due precari morituri.