Su invito del diretto interessato, ieri ho avuto l’onore di prendere parte alla presentazione del nuovo libro di Achille Occhetto: “Pensieri di un ottuagenario. Alla ricerca della libertà nell’uomo” (Sellerio editore).
Un pomeriggio colto, appassionante, ben speso, in quel milieu intellettuale di grandissimo valore che è la Treccani, alla presenza di personalità come Salvatore Veca e Gaetano Savatteri, protagonisti, insieme ad Achille, di un lungo viaggio nell’inquietudine del pensiero, così lontana e magnificamente anacronistica rispetto alle urla sguaiate di un’incultura televisiva che l’anziano leader della sinistra, come c’era da aspettarsi, non ha mancato in più passaggi di stigmatizzare.
Personalmente, gli ho chiesto cosa lo avesse indotto, di recente, ad appassionarsi alla cultura scientifica, ad avvicinarsi al pensiero di Rovelli, Boncinelli e Hawking, a scegliere di esplorare un ambito così diverso da quel crogiolo umanista nel quale l’abbiamo sempre visto immerso e Achille mi ha impartito una lezione sull’importanza del caso nelle scelte umane, su quanto l’imprevisto, l’inatteso, l’inaspettato abbiano spesso la meglio nel corso della nostra vita, conducendoci lungo sentieri sconosciuti e consentendo alle persone veramente innamorate di quell’arte oggi quasi misconosciuta eppure indispensabile che è il dubbio di provare a comprendere gli angoli più reconditi dell’animo umano e della vita, in una continua ricerca, in un costante e motivato periplo attraverso le vicende di un mondo che cambia a ritmi vertiginosi ma, al tempo stesso, sembra aver smarrito la bussola e aver perso un fine, una meta, un orizzonte.
È un Occhetto diverso, dunque, quello che parla a cuore aperto in quest’analisi filosofica, distante anni luce dal chiacchiericcio fastidioso di una quotidianità dalla quale ci ha, anzi, esortato ad allontanarci, proprio per poter tornare ad amare quella che è stata la ragione sociale della sua vita, ossia la politica, oltre che per ritrovare noi stessi in una dimensione meno artefatta, meno esposta alle luci dei riflettori e più libera, più vera, più densa di quei significati universali che il contesto attuale tende sempre più a porre in secondo piano.
Un Occhetto che ragiona sui fini e parla ai giovani, lui, ragazzo inconsapevole di essere tale o, forse, come a me sembra quando ho l’onore di confrontarmici in privato, assai consapevole di questa sua invidiabile freschezza e, proprio per questo, innamorato delle novità, lui che potrebbe insegnare e invece impara, riprendendo quel modello socratico della maieutica che quasi nessun politico, dopo la conclusione dell’esperienza dossettiana, ha avuto la saggezza di praticare e di trasmettere alle generazioni successive.
Un Occhetto che scruta l’orizzonte con curiosità, che si immerge contemporaneamente nel passato e nel presente, che si affaccia sull’oggi e ci indica una rotta per il domani, mettendoci in guardia sul fatto che stanno scomparendo contemporaneamente sia il concetto di io che quello di noi, ossia il singolo nella sua unicità e la collettività nel suo imprescindibile insieme, e consentendoci inoltre di venire a contatto con Nietzsche e con Sartre, con Rousseau, con Leopardi e con Max Weber, con le sue esperienze di vita e con i sogni, i progetti e le speranze di un giovane con otto decenni alle spalle, infinite avventure vissute e, nonostante questo, un desiderio irrefrenabile di viverne ancora tante altre, incarnando quella modernità che la sinistra purtroppo ha smarrito, fino a rifugiarsi in un triste e angoscioso nuovismo che, oltre a risultare esasperante, altro non è che l’opposto della modernità e l’emblema della conservazione, aggravata dalla tendenza a cristallizzare poche statiche certezze e a rinunciare alla meraviglia della navigazione in mare aperto.
Occhetto no, non ha rinunciato, non si è arreso, non si è mai fermato e oggi, lontano dai riflettori e dagli obblighi snervanti di una campagna elettorale permanente, quindi inconsistente e priva di contenuti, può studiare, analizzare, indagare sui fenomeni a tutto tondo e farci venire a contatto con la bellezza della complessità: unica vera chiave per comprendere un quadro storico che non si può né riassumere con un tweet né pensare di ingabbiare in qualche slogan ad effetto, forse utile per conquistare voti, peraltro sempre meno, ma senz’altro nemico di ogni prospettiva riformista e, ancor più, di quell’affascinante sfida con se stessi che è la comprensione delle ragioni del prossimo.
C’è un secolo che si è ormai concluso e un secolo in divenire in questo saggio filosofico; c’è il senso della vita e il senso della politica; c’è la competenza e lo studio di uno degli uomini più colti che abbia avuto l’onore di conoscere e la confessione, di per sé irrituale e straordinaria, di chi ammette di non avere alcuna risposta ma, in compenso, mille domande, innumerevoli interrogativi, una volontà di conoscenza inappagata e l’orgoglio di dirlo apertamente, trasformando quella che attualmente è considerata una debolezza in un grande punto di forza.
E noi che a vent’anni iniziamo a fare i conti con la vita e con la politica, noi che ancora crediamo in qualcosa, che abbiamo ancora l’ambizione e il desiderio di dare battaglia, noi che più di tutti abbiamo l’esigenza di imparare, di conoscere e di scoprire ci lasciamo prendere per mano da un “coetaneo” che ne ha viste tante e in questo libro, come in altri che ha scritto, ha avuto il merito investire i propri sogni, mettendoci a disposizione una presenza discreta, destinata proprio per questo a dar vita in noi a quella maieutica socratica che è, al tempo stesso, una passione e un incontro ma, soprattutto, la più alta forma di educazione, di trasmissione del sapere, di passione e di impegno civile.