“Siamo preparati e addestrati ma il nostro esercito ha pochi mesi di vita e ci serve un addestramento più fresco e adeguato alle nuove sfide: diciamo che per noi questo è una specie di ripasso”. A parlare è il colonnello Said, a capo di una squadra di 78 militari della guardia costiera e Marina militare libica che dal 26 di ottobre ha iniziato un training in tre fasi sulle navi impegnate nella missione europea EunavforMed concepita per il contrasto al traffico di esseri umani e conosciuta anche come “operazione Sophia” dal nome della prima bambina nata a bordo di una nave della flotta impegnata nel Mediterraneo Centrale, proprio di fronte la Libia in acque internazionali. L’operazione è coordinata dall’ammiraglio italiano Enrico Credendino, ed è nata per decisione dell’Unione Europea dopo uno dei più atroci naufragi di barconi di migranti, quello che il 18 aprile del 2015 ha provocato la morte di almeno 800 tra uomini donne e bambini.
E all’Europa quest’anno il governo libico riconosciuto dall’ONU – quello di Al Serraj che si muove in contrapposizione a quello di Al Haftar e con in mezzo gli estremisti islamici del Daesh – ha chiesto mezzi nuovi per poter intervenire a mare con un addestramento adeguato per i suoi uomini. Oltre a dare filo da torcere ai trafficanti, altro scopo della missione è tenere sotto controllo il traffico di armi verso una Libia dove ancora sono troppe le milizie fuori controllo.
A quale gruppo dunque appartengono i militari che si stanno addestrano nell’operazione Sofia ?
“I 78 i militari sono stati selezionati dal governo libico riconosciuto – ci dice l’ammiraglio Giuseppe Berutti Bergotto, comandante dell’operazione – Siamo certi che non ci sono tra loro infiltrati di altre milizie”
Per farla breve, ad addestrarsi sarebbero militari della guardia costiera “quasi amica” , quella che – durante un nostro viaggio sulla nave dell’Ong SoS Mediterranée ci aveva avvicinati in acque internazionali al limite con le loro acque territoriali senza mostrare ostilità nei nostri confronti: a differenza di altri casi in cui motovedette di sedicenti Guardia costiera libica avevano attaccato navi civili in soccorso ai migranti.
È la prima volta che ad una delegazione di quattro testate giornalistiche di più paesi europei viene concesso di incontrare i libici prima che finisca la prima fase di addestramento sulla nave olandese Rotterdam, dove si segue la parte pratica, e sull’italiana San Giorgio, dove si segue quella teorica.
Per incontrarli, ci avviamo da Catania verso le acque internazionali a bordo della nave ammiraglia dell’intera missione, la “trentenne” Garibaldi dove ad agosto il premier Renzi ha ospitato gli omologhi Angela Merkel e François Hollande al vertice di Ventotene che avrebbe dovuto rimarcare i valori di un’Europa unita che rischia di traballare proprio sulla questione migranti.
Arrivati al punto stabilito che non riveliamo per motivi di sicurezza, ci trasferiamo in elicottero sulla prima nave dove si stanno svolgendo lezioni di tecniche navali anti incendio, riparazioni di falle, ricerca di prove in una scena del crimine come nei più noti serial televisivi o di recupero armi e droga nascoste, con tanto di tempi ristretti segnati da un cronometro.
Sull’italiana San Giorgio dove è prevista la parte teorica, il ponte garage è stato trasformato in una scuola da una parte, un’area ludica dall’altra, e una piccola moschea galleggiante per la preghiera.
Tra le lezioni, anche quelle di lingua inglese, di salvataggio a mare con i preparatissimi uomini della Guardia Costiera italiana, e di diritto umanitario in base alla convenzione di Ginevra mai firmata dalla Libia. Questo compito sarà affidato a operatori dell’ alto Commissariato Onu per i rifugiati.
L’addestramento prevede 15 giorni a bordo e sei di riposo a terra, al termine di questa prima fase, seguirà l’addestramento a terra in Grecia, Malta e Italia: la terza e ultima fase invece sarà a bordo dei pattugliatori libici, alcuni forniti proprio dall’Europa ad un esercito per ora sprovvisto di mezzi adeguati.
Quando chiediamo agli ufficiali libici perché hanno bisogno di essere indottrinati sul rispetto dei diritti umani, la risposta da tutti è sempre la stessa: “A noi servono i mezzi per poter combattere i trafficanti e , certo, anche per evitare altri naufragi” . Ma se chiediamo che fine faranno i migranti salvati dai naufragi nelle loro acque territoriali, nessuno di loro risponde.
Capiamo dunque che l’impresa, seppure affascinante, è molto delicata e non facile: c’è infatti il rischio che lasciare il contrasto del traffico di esseri umani, in mano ai libici – anche se quelli “quasi amici” – serva solo a riportare indietro in Libia migliaia di migranti , per lo più africani, che finirebbero ancora una volta chiusi nelle carceri di un paese ancora nel caos. Carceri dove gli stessi libici li considerano pura merce o braccia per i lavori forzati.
Per questo, prima di cercare di regolare i flussi migratori mettendo in campo nelle acque territoriali libiche forze con un potere parziale e non del tutto controllabili, è necessaria una stabilizzazione del paese con la possibilità di portare in Libia le organizzazioni umanitarie per controllare che alla fine i diritti dei profughi vengano rispettati come ora invece non succede, come testimoniano le ferite fisiche e psicologiche mostrate dai migranti in arrivo. Per chi l’ha voluta questa missione è comunque un primo passo per rendere più solido il dialogo tra l”Europa e una Libia dove i trafficanti continuano a fare affari sulla pelle dei migranti