È davvero difficile raccontare questo 2016: un anno di cui, prima ancora che finisca, già si parla in termini storici, come se l’attualità non esistesse più, come se vicende avvenute due-tre mesi fa fossero già degne di essere studiate nelle scuole. E in effetti è così, se si pensa all’impatto globale che avrà, ad esempio, la vittoria di Donald Trump e di un GOP che non ha più nulla a che spartire con il Partito Repubblicano che abbiamo conosciuto negli ultimi trent’anni, liberista in economia e guerrafondaio in politica estera, essendo Trump la quintessenza del cosiddetto “paleocon”, ossia un conservatore classico, vecchia scuola, molto simile ai proibizionisti degli anni Venti e cultore della dottrina Monroe: una sorta di interprete dell'”America first”, il che significa isolazionismo e “retrenchment”, chiusura e risparmio sulle spese comuni, a cominciare dalla NATO, rafforzamento dei confini, della sicurezza e della potenza interna (il famigerato muro al confine col Messico), con conseguente disinteresse nei confronti delle vicende globali. Peccato che il nostro amico Donald non abbia capito che se non sarà l’America ad occuparsi del mondo sarà il mondo ad occuparsi dell’America e anche con una certa assiduità, in quanto determinati vincoli e determinate barriere, se erano insensate ai tempi di Harding o di Coolidge, oggi sono semplicemente fuori dalla storia, vivendo in un contesto globale in cui sono le multinazionali a farla da padrone e nuove potenze emergono e avanzano ormai a vista d’occhio.
Pensiamo, ad esempio, all’ascesa della potenza economica cinese, la quale, con cifre da capogiro, ben oltre i limiti dell’immoralità, sta in questi giorni tentando di dare l’assalto ai pezzi pregiati del mercato calcistico del pianeta, offrendo loro stipendi inauditi e tentando di spostare definitivamente il proscenio dall’asse euro-atlantico al contesto asiatico, con buona pace di coloro che non si sono ancora resi conto di quali siano i nuovi avversari da fronteggiare, i nuovi interlocutori con cui confrontarsi e, soprattutto, del fatto che siamo ormai immersi, da tre lustri, in un nuovo secolo e in un nuovo millennio.
Diciamo che questo 2016 è stato l’anno in cui, con la scomparsa di Castro e di una serie di grandi attori, registi, artisti e interpreti che avevano caratterizzato le vicende del “Secolo breve”, il Novecento si è definitivamente concluso; e così ci troviamo oggi a cavallo fra due epoche, sospesi fra il non più e il non ancora, schiacciati da un secolo preponderante e in grado di prolungarsi, di fatto, per altri quindici anni, con i suoi riti, i suoi miti, i suoi drammi e le sue ideologie strutturate, e un secolo bambino, incapace ancora di definire i propri confini e la propria identità, di darsi un senso e una ragione di esistere, di stabilire degli equilibri minimamente accettabili e di mettere in discussione equilibri che ormai di accettabile non hanno più nulla, come si evince, ad esempio, dalla vicenda che vede coinvolto Israele nel braccio di ferro con le Nazioni Unite in merito agli insediamenti in Cisgiordania, con un Obama al canto del cigno che sta provando in ogni modo, e purtroppo tardivamente, ad arginare la furia fondamentalista di Netanyahu e Trump che, invece, sta per spedire in Medio Oriente un pazzo, tal Friedman, il cui intento dichiarato è quello di spostare la sede dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, con il rischio di scatenare una nuova Intifada e, forse, un pericolosissimo conflitto in una regione che è già di per sé una polveriera.
Uno scenario non dissimile a quello venutosi a creare in Iraq in seguito all’abbattimento, all’arresto e all’esecuzione di Saddam Hussein, avvenuta, quest’ultima, esattamente dieci anni fa, con conseguente destabilizzazione di un quadro mediorientale che vede ormai la regione del Siraq nelle grinfie dell’anti-mondializzazione medievale portata avanti dai tagliagole dell’ISIS, a cento anni esatti dalla definizione artificiale dei confini dell’ex Impero ottomano ad opera delle potenze anglo-francesi, per mezzo degli accordi di Sykes-Picot.
Una storia circolare che prontamente ritorna, dunque, mentre la Russia del sempre vispo Putin rischia di arrecare agli Stati Uniti gli stessi danni che questi arrecarono ad un’Unione Sovietica ormai morente (non a caso, qualche analista avveduto ha avanzato l’ipotesi che il 2016 possa trasformarsi per l’America in ciò che l’89 rappresentò per l’URSS), favorendo la deposizione di Gorbačëv e l’ascesa di Boris El’cin, segnando così l’inizio di uno dei decenni più tragici della recente storia del grande Orso adagiato fra l’Europa e l’Asia.
Una Russia protagonista nella vicenda siriana, nel contrasto allo Stato Islamico e nella ridefinizione degli assetti geo-politici mediorientali e globali, con il rafforzamento del potere del discutibilissimo presidente siriano Bashar al-Assad e un accordo strumentale con la Turchia e l’Iran, con i primi che avranno il via libera nel massacro delle giuste ambizioni curde e i secondi che avranno un partner d’acciaio quando si tratterà di affrontare le controversie che sorgeranno con la nuova America oltranzista del tycoon newyorkese improvvisatosi statista.
Un anno drammatico, invece, per la Turchia, costretta a fare i conti con l’inciviltà di Erdogan, con la sua oppressione dittatoriale nei confronti della libertà d’espressione e con la sua repressione selvaggia contro avversari e presunti tali, in seguito al fallito golpe di luglio e alla barbarie compiuta sistematicamente nei confronti del popolo curdo, nel silenzio assordante di un’Europa assente e complice, condannata all’irrilevanza dall’assurda concessione di mani libere al Sultano sul Bosforo in cambio del trattenimento forzoso sul suolo turco dei milioni di disperati in fuga dagli scempi compiuti nel Siraq dal Daesh.
E un anno drammatico lo è stato senz’altro anche per il Regno Unito, il quale, dopo aver sventato per un soffio la secessione tentata dagli scozzesi nel 2015, ha dovuto fare i conti con la miopia di Cameron, oggi pensionato di lusso, con il cinismo populista di Farage, con lo sfaldamento di un Labour incapace di riconoscere il valore aggiunto costituito da Corbyn e con la furia cieca di un popolo che, specie nelle periferie urbane e nelle aree rurali, a cominciare dai dannati della globalizzazione, ha deciso di voltare le spalle all’Europa e di dar vita alla Brexit.
Per non parlare, poi, di Francia, Belgio e Germania, colpite dalla ferocia del terrorismo jihadista: prima all’aeroporto di Bruxelles e presso la stazione della metropolitana di Maalbek, poi a Nizza e, infine, a Berlino, poche ore dopo l’assassinio, ad Istanbul, dell’ambasciatore russo in Turchia per mano di un giovane poliziotto turco mosso dal desiderio di vendicare la devastazione di Aleppo e dell’intera Siria.
Un anno che ha sconvolto il mondo e mutato per sempre la nostra percezione delle cose, del quadro internazionale e del nostro rapporto con il potere e con noi stessi. Abbiamo assistito, infatti, al divorzio definitivo fra il popolo e delle élites non più tali, responsabili di aver avallato, giustificato e, anzi, glorificato per trent’anni un sistema complessivamente iniquo, pericoloso e foriero di diseguaglianze ormai inaccettabili, esplose in un furore dissennato ma comprensibile di rabbie inesauste, le quali hanno terremotato il quadro politico mondiale e messo a nudo le falle, le pecche e la mancanza di senso di una sinistra costretta a ripensarsi da cima a fondo, se non vorrà sparire del tutto sotto il peso soverchiante di una destra di protezione e al cospetto di forze politiche che saranno pure populiste ma sono, comunque, in grado di farsi interpreti di un malessere sociale che esiste e che sarebbe assurdo e autolesionista continuare a negare.
La Spagna ha votato due volte e, infine, è tornata alla casella di partenza, con un governo di larghe intese a guida Rajoy, sostenuto dall’ala più retrograda e fuori dalla storia del PSOE, in seguito alla sfiducia nei confronti dell’ormai ex segretario Pedro Sánchez e a un esito elettorale che ha prodotto un quadro di assoluta ingovernabilità, figlio dei tagli e delle mattanze operate in questi anni dallo strapotere delle banche e da una politica, nel complesso, corrotta, compiacente e pressoché indistinguibile fra destra e sinistra.
Un liberismo duro e puro e un liberismo leggermente temperato da qualche iniezione di cura sociale: troppo poco, troppo tardi, non basta più e non serve, in quanto non interpreta il bisogno di tutele, diritti, dignità e garanzie che si è manifestato, negli ultimi cinque anni, in ogni angolo del mondo: da Zuccotti Park a New York alla Puerta del Sol di Madrid, senza dimenticare la Grecia di Tsipras e le varie onde studentesche che hanno attraversato il nostro Paese, fino a trovare una casa, per quanto instabile e pericolante, nel Movimento 5 Stelle.
Nulla sarà più come prima dopo questo 2016: siamo entrati in una nuova era e non abbiamo ancora gli strumenti per comprenderla e per navigarvi né abbiamo messo a punto delle adeguate difese contro i pericoli e le minacce che caratterìzzeranno i prossimi decenni.
Le città stanno cambiando radicalmente volto, l’immigrazione, il bisogno di integrazione e il contesto di una società multietnica sono dati già acquisiti e negarli o chiudersi in se stessi, a difesa di antiche certezze ormai inesistenti, non servirà a niente, come non servirà a niente affidarsi ai venditori di fumo e di illusioni né, meno che mai, ai cultori di un blairismo anacronistico che la stessa Gran Bretagna, con la rielezione a furor di popolo di Corbyn da parte della base labourista, dopo che questi era stato sfiduciato dai propri deputati, ha detto chiaramente di voler archiviare.
Il trentennio liberista, con il suo edonismo, la sua spinta ai consumi sfrenati, la sua disuguaglianza creatrice, le sue illusioni, i suoi inganni, le sue capitali trasformate in vetrine e la sua progressiva emarginazione degli ultimi, dei deboli e degli esclusi, in nome di una presunta meritocrazia che ha condotto alla ribalta, ovunque, una classe dirigente tra le peggiori di sempre, se non proprio la peggiore, si è definitivamente concluso e, almeno noi, non ne sentiremo la mancanza.
Bisognerà ricostruire: innanzitutto una sinistra degna di questo nome e poi una connessione sentimentale con il popolo e con le sue esigenze, a cominciare dalle giovani generazioni, dai dipendenti gettati in mezzo alla strada dai padroni del call center Almaviva, dai percettori di un fiume umiliante e sconsiderato di voucher e dalle vittime di una globalizzazione iniqua e senza sbocco, cui sarà necessario dare delle regole e una legislazione democratica, la quale dovrà per forza sostanziarsi, a breve, nella creazione di una sovranità europea e nell’accantonamento di quel mito privo di senso e di alcuna possibilità concreta di esistere che sono le piccole patrie.
Anche e soprattutto per questo lo scorso 4 dicembre abbiamo difeso la nostra splendida Costituzione: per sentirci italiani in Europa ed europei in Italia, per riaffermare i nostri diritti, i nostri valori e le ragioni fondanti e, per l’appunto, costitutive del nostro stare insieme. Siamo stati una generazione e un popolo costituente, ponendo fine all’altro mito insulso che ha segnato drammaticamente l’ultimo trentennio, ossia quello dell’uomo solo al comando: senza vincoli, senza obblighi di legge, con una legittimazione plebiscitaria e avulsa dal concetto stesso di democrazia e spesso ostaggio di consorterie, lobby e veri e proprie centri di potere, non di rado coinvolti in vicende tutt’altro limpide, come l’ampia azione giudiziaria e il conseguente scontro con un mondo politico sempre più fragile e in ginocchio testimoniano inequivocabilmente.
È scoppiato tutto, è saltato tutto, il Paese è ridotto a una maionese impazzita, la politica a una marmellata avariata sparsa sul tavolo, il dibattito pubblico non ha né capo né coda e persino gli interpreti nostrani della rivolta, sotto le spoglie delle 5 Stelle grilline, governano bene là dove esprimono una candidatura, quella della Appendino, che la sinistra dapprima non ha saputo capire né ascoltare e poi non ha saputo né voluto valorizzare mentre, dove sono duri e puri, con annessi totem e tabù, come a Roma, incontrano non pochi ostacoli e non poche difficoltà, prime fra tutte quelle che continuano pervicacemente a crearsi da soli.
E così, mentre salutiamo William Salice, inventore del magnifico Ovetto Kinder, dopo aver detto addio a Michael Cimino, Zsa Zsa Gabor, Michèle Morgan, Carrie Fischer, Debbie Reynolds, George Michael, il Coro dell’Armata Rossa e molti altri ancora e dopo aver celebrato i cinquant’anni di Alberto Tomba e i settanta di Steven Spielberg (al cinema con “Il GGG – Il Grande Gigante Gentile”, tratto dal bellissimo romanzo di Roald Dahl), Pierino Prati e Patti Smith, torniamo a riflettere su di noi, sui nostri ideali, sulle nostre speranze e sulle nostre prospettive. In fondo, abbiamo combattuto anche e soprattutto per questo, sfidando pregiudizi, luoghi comuni, frasi fatte, diffidenze, un sistema dei media che ormai si commenta da solo (peraltro nell’anno della post-verità e dello sdoganamento ufficiale, con annessa critica ipocrita, delle bufale) e vincendo con la sola capacità di saper interpretare il contesto di un mondo che troppi credevano ancora ingabbiato nella prigione del trentennio tragico o incastonato all’interno dei comodi lidi di un Novecento consegnato, invece, definitivamente ai libri di storia.
Un domani, che peraltro potrebbe essere già oggi, studieranno noi; e, al netto di ogni altra considerazione e dell’oggettiva presa d’atto della tragicità dei dodici mesi che stiamo per lasciarci alle spalle, non è una soddisfazione da poco.
P.S. Dedico quest’articolo alle famiglie di Giulio Regeni e Fabrizia Di Lorenzo, vittime, rispettivamente, della barbarie del terrorismo e della ferocia di un regime, quello di al-Sisi, nei confronti del quale, a mio avviso, il governo italiano ha peccato, e non da oggi, di un eccesso di diplomazia, dovuto anche, sostengono i maligni, ai lucrosi accordi commerciali che l’Italia ha stipulato, negli anni, con l’Egitto. E lo dedico anche alle vittime delle tre scosse di terremoto che, fra agosto e ottobre, hanno sconvolto il Centro Italia e ai loro cari, con l’auspicio che presto possano riavere una casa e un briciolo di normalità