Verso la manifestazione del 26 novembre. La forza delle donne

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Prendiamo con estrema serietà la promessa del presidente Donald Trump di voler ribaltare le sentenze della Corte Suprema sulle garanzie concesse alle donne come Roe v. Wade (ndr, legislazione sull’aborto negli Usa), e il suo impegno a ritirare gli ordini esecutivi emessi dal presidente Obama, riguardanti la garanzia della parità di retribuzione. Abbiamo combattuto questo tipo di minacce finora e abbiamo vinto. Lo faremo di nuovo”. Con queste parole Marcia Greenberger, co-presidente del National Women’s law center, ha accolto le elezioni del nuovo presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che durante la sua campagna elettorale ha detto più volte che l’aborto dovrebbe essere vietato, che chi ha interrotto gravidanze dovrebbe essere punita, e “le molestie e violenze sessuali sono la logica conseguenza della vicinanza di uomini e donne”.

In Argentina a ottobre migliaia di donne sono scese in piazza dopo che Lucia Perez, una ragazza di 16 anni, è stata drogata, stuprata, torturata, impalata nel giorno in cui si svolgeva un incontro nazionale con 70 mila donne in un Paese dove, malgrado una legge contro il femminicidio, “i casi stanno aumentando e diventando sempre più violenti e perversi” – come afferma la giudice della Corte Suprema Elena Highton de Nolasco – in quanto questa legge non viene applicata né fatta rispettare. In Polonia, sempre a ottobre, le donne hanno manifestato e scioperato in massa per difendere la cancellazione totale del diritto all’aborto, che sebbene sia applicato solo se la madre è in pericolo di vita, se c’è una grave malformazione del feto o in caso di stupro, avrebbe spazzato via anche la norma applicata in maniera restrittiva. In Italia Valentina Miluzzo di 32 anni, incinta di due gemelli, è morta al quinto mese di gravidanza all’Ospedale Cannizzaro di Catania perché, dopo aver espulso il primo feto morto, un medico obiettore “si sarebbe rifiutato di estrarre il feto che aveva gravi difficoltà respiratore fino a quando fosse rimasto vivo perché obiettore di coscienza”, mentre Anna Manuguerra, casalinga di 60 anni uccisa a coltellate dal marito a Trapani l’altro ieri, è la 124esima vittima di femminicidio dall’inizio dell’anno a oggi. Donne che non hanno fatto in tempo a chiedere aiuto ai centri antiviolenza continuamente a rischio chiusura per mancanza di fondi, come in Sardegna o nel Lazio, in un Paese in cui può capitare che uomini esponenti di Forza Nuova propongano l’apertura di un centro antiviolenza – come a Massa Carrara in Toscana – o che un centro antiviolenza operante sia sgomberato con le donne dentro perché utilizza tre stanze invece di due, come a Lecce.

Eppure, malgrado il mainstreming ne abbia parlato poco o niente, sono mesi che centinaia di donne s’incontrano in diversi luoghi d’Italia per discutere un’azione unitaria nel tentativo di innestare un’inversione di tendenza reale su tutela della salute, diritto all’aborto, precarizzazione del lavoro, distruzione del welfare, violenza maschile sulle donne, spinte dalla ormai tangibile inefficacia istituzionale nell’affrontare quello che nel complesso possiamo chiamare come: i diritti delle donne. Anche se nessuna testata nazionale ne ha parlato, l’8 ottobre più di cinquecento donne di ogni età, provenienti da svariate parti d’Italia e appartenenti a diverse realtà associative, si sono incontrate a Roma per trovare un modo unitario nel contrastare il femminicidio e riunendosi sotto lo slogan: “Non una di meno”, che pur essendo partito da tre realtà associative (Udi, DiRe e Io decido), raccoglie oggi migliaia di adesioni in tutta Italia. Un incontro che ha definito in maniera concorde la violenza non come un fatto privato ma “come un fenomeno strutturale e trasversale” sostenuto anche da politiche istituzionali, educative, sociali, economiche, e alimentato da una cultura discriminatoria continuamente ribadita da una narrazione mediatica ancora troppo spesso rivittimizzante: un fenomeno che potrà essere contrastato solo attraverso “un cambiamento culturale radicale che contrasti anche il tentativo d’istituzionalizzazione degli stessi centri antiviolenza”, portatori a loro volta di un sapere e di un cambiamento di mentalità prezioso maturato negli anni di lavoro con le donne sopravvissute. Una violenza che colpisce anche lesbiche e transessuali, che costringe le donne a essere ancora umiliate nei commissariati e nei tribunali perché spesso non credute, che insegna alle ragazze e alle bambine una cultura e una storia che le ammaestra ma nega la loro stessa identità perché fatta solo da uomini, in un Paese dove chi opera sulla violenza o si imbatte su tematiche di genere, non ha ancora una formazione obbligatoria e quindi spesso è inadeguato al compito che gli si presenta e che dovrebbe competergli (come forze dell’ordine, magistratura, assistenti sociali, psicologi, e anche giornalisti).

Un’assemblea a cui si è arrivate dopo diversi incontri e che, richiamandosi alle argentine, curde e polacche come esempio della capacità delle donne di ribaltamento dello status quo, ha deciso di indire il 26 novembre una manifestazione nazionale contro la violenza maschile sulle donne “aperta a tutt* coloro che assumono la violenza di genere come problema prioritario nei processi di trasformazione dell’esistente”, e che sarà presentata in conferenza stampa a Roma mercoledì 23 novembre (sala Federazione nazionale della stampa – Fnsi, Corso Vittorio Emanule II 349, ore 11.30), con un richiamo a manifestare che è solo l’inizio di un percorso che prosegue già il giorno dopo, il 27 novembre, con l’insediamento di 8 tavoli tematici per la scrittura di un Piano antiviolenza femminista: decisione presa sulla base del superamento del primo Piano antiviolenza, varato dalla ex ministra Mara Carfagna, e dopo aver preso atto delle aspre critiche che hanno accompagnato la presentazione del Piano Antiviolenza straordinario messo insieme dalla ex consigliera di Renzi per le Pari opportunità, Giovanna Martelli, fallito ancora prima di essere applicato. Tavoli, quelli delle donne, che si occuperanno nello specifico della narrazione della violenza nei media, dell’educazione alle differenze, diritto alla salute, del piano legislativo e giuridico, dei percorsi di fuoriuscita dalla violenza, del femminismo migrante, del lavoro e Welfare, e del sessismo nei luoghi misti. Un tentativo di colmare non solo il grande vuoto lasciato dal governo nella non implementazione della Convenzione di Istanbul (Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica) – in vigore dal 2014 e contenente indicazioni precise per il contrasto alla violenza maschile sulle donne – ma anche di affrontare un quadro ampio di applicazione di diritti, quelli delle donne, a oggi sempre più evanescenti in Italia.

Assemblea, quella dell’8, a cui si deve aggiungere un altro importante raduno, fatto a Osimo a fine ottobre, che ha fatto incontrare circa 200 donne provenienti da diverse città sotto lo slogan “Rebel Rebel”, e dove è emerso – anche qui – il bisogno di unificare diversi approcci di lavoro e differenti percorsi politici, per la costruzione di un’azione unitaria in vista di grandi obiettivi: un gruppo, fra tutti, che senza dubbio ha aderito alla manifestazione del 26 novembre contro la violenza maschile delle donne, al di là delle differenze che fino a oggi hanno fin troppo diviso il femminismo italiano, coscienti che l’attacco al corpo delle donne non è un fenomeno solo italiano e si manifesta in maniera sempre più aggressiva. “C’è un attacco generalizzato alle donne in tutti i Paesi”, ha detto a Osimo Irene Donadio, Advocacy Officer per l’International Planned Parenthood Federation (IPPF): “E se prendiamo per esempio la teoria del gender, vediamo come sebbene fino al 2006 fosse un tema relegato alla ricerca accademica, da un certo punto in poi in Germania, in Francia, Ungheria, Polonia e in Slovacchia, sono stati ripresi alcuni articoli usciti negli Stati Uniti che interpretavano il gender come una battaglia nefasta delle femministe e dei gay per deviare tutti i bambini forzandoli a diventare in massa transgender, o istigandoli alla masturbazione in pubblico”. Come sottolinea un’interessante ricerca tedesca dal titolo “La battaglia sul gender come collante dei nuovi movimenti nazionalisti”, in questi Paesi gruppi di estrema destra hanno reclutato persone cavalcando la paura del gender e quindi presentando un programma in cui la difesa della famiglia, come difesa dell’unità nazionale, preserva da queste “perversioni”.

Per Linda Laura Sabbadini dell’Istat – rimossa mesi fa senza motivo e tra numerose polemiche da direttora del Dipartimento per le statistiche sociali e ambientali dell’istituto e senza la quale oggi non sapremmo nulla sulle donne che subiscono violenza in Italia – “Dobbiamo essere coscienti di quanto si è sviluppata la forza delle donne perché se da un lato stiamo perdendo qualcosa, dobbiamo anche avere presente le cose che abbiamo conquistato, e dobbiamo riflettere sul fatto che oggi abbiamo bisogno di rilanciarci collettivamente e non più solo su un piano individuale nei nostri luoghi di lavoro e di azione”. Rispetto alla violenza sulle donne, Sabbadini ha dato un quadro preciso a chi l’ascoltava durante l’incontro marchigiano: “Nell’ultima indagine rispetto a 8 anni fa la violenza contro le donne è in diminuzione, e che anche se è stabile lo zoccolo duro dei femmicidi e degli stupri, quindi le forme più gravi, quella fisica, psicologica e sessuale è diminuita in maniera trasversale. Accanto alla diminuzione però – continua – c’è un incattivimento della violenza e questo è un nodo fondamentale perché oltre a questo, è aumentata anche la percentuale delle donne che hanno avuto paura di perdere la vita durante l’atto di violenza, e questo vuol dire che è aumentato il numero di chi si trova all’interno dell’escalation della violenza agita da partner”. Per Sabbadini un altro dato interessante è che le donne che riconoscono la violenza sono raddoppiate (36%) e malgrado siano ancora una minoranza, questo ci fa capire come sia in atto un aumento di consapevolezza che forse ci spiega quel calo per cui oggi le donne hanno maggiore capacità di prevenire la violenza perché hanno una maggiore capacità di interromperla prima che aumenti. Un dato che spiega che anche sulla violenza qualcosa è cambiato: se 8 anni fa, quando si è fatta la prima indagine, la violenza era considerata un fatto privato e le donne non ne parlavano con nessuno, adesso, sebbene ancora la maggioranza sia sommersa, cresce il numero delle donne che va ai centri antiviolenza e che denuncia, perché comunque se ne parla di più, e questo grazie all’azione delle donne e alla controinformazione che in questi anni ha contribuito a far crescere un sentimento di condanna verso la violenza sulle donne che prima non c’era, arrivando anche al mainstreming (sebbene spesso in maniera distorta).

In questi giorni la Presidenza della Commissione bilancio ha concordato, su proposta del Presidente Boccia, la votazione di 12 emendamenti al ddl di bilancio 2017 sottoscritti da deputate dell’Intergruppo per le donne, i diritti e le pari opportunità, tra cui compaiono: estensione del congedo a lavoratrici autonome vittime di violenza inserite in percorsi di protezione; incentivi per l’occupazione delle donne vittime di violenza; destinazione di 24 milioni del Fondo per le politiche di pari opportunità al piano antiviolenza, servizi territoriali, centri antiviolenza; indennizzo per gli orfani di femminicidio. Proposte che seppur non ancora passate, e comunque non sufficienti in un quadro d’insieme ancora fin troppo indefinito (come per esempio la mancanza di un efficiente Piano antiviolenza nazionale), sono nate dalla ricerca di un dialogo con la società civile riunite intorno al tavolo “Le donne, condizione della crescita” promosso dalla presidente della camera, Laura Boldrini, con una metodologia che dovrebbe essere la norma per tutte le istituzioni, anche e soprattutto per il Dipartimento delle pari opportunità, di cui ha oggi delega la ministra Elena Boschi, la quale però ancora adesso, davanti a una società civile di donne che ormai conta migliaia di realtà sul territorio nazionale e che il 26 novembre si mobiliterà per rendere visibile la sua presenza, continua a convocare sulla violenza tavoli con associazioni composti da dieci persone.


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